lunedì 24 dicembre 2018

A Natale son tutti più buoni. È il prima e il dopo che mi preoccupa. (Charles M. Schulz)

Quella della mia infanzia era una famiglia... disfunzionale, ed è per questo che amo il Natale, anche se nessuno di noi era credente, neanche mia madre, che insistette molto perché io e mia sorella subissimo un'educazione cattolica completa.

Vi chiederete: che accidenti di incipit è questo, e che ci azzecca col Natale?
Beh, prima devo porre qualche premessa.


Devo dire, prima di tutto, che la casa della mia infanzia non era esattamente un rifugio sicuro e confortevole, dato che ogni santo giorno scoppiavano liti tra di noi, e sulla cosa potevi scommetterci l'ultimo soldo che ti era rimasto in tasca.

La media abituale, quella dei giorni tranquilli e rilassati, si incentrava su un paio di accapigliamenti per motivi minori, che non valevano assolutamente la foga che ci mettevamo, e sempre, giuro, perlomeno per uno, o più,  argomenti di maggiore rilevanza che non erano nuove liti, ma riprese di vecchi contrasti, incancreniti e ormai irrisolvibili, che venivano ripresi dal punto di abbandono precedente e portati ad un nuovo, e del tutto inutile, punto di stanca acredine, pronti per essere ripresi, con comodo, più avanti e con una liturgia immutabile, salvo occasionali tipologie d'attacco innovative, ma per nulla risolutive.

Una delle ragioni per le quali quei dissidi si rivelavano semplici esercizi di mortificazione, privi di scopo e incapaci di un esito risolutivo, stava nell'estetica melodrammatica che li permeava.

Mia madre, orfana già in tenerissima età e cresciuta in un convitto di suore,  applicava alle relazioni gli schemi presuntamente catartici che aveva appreso frequentando la letteratura cosiddetta d'appendice e, soprattutto, i bei filmoni drammatici interpretati da Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, quelli rispondenti alla definizione che Marchelli diede del melodramma popolare, ovvero estremismo emotivo con stile adeguatamente eccitato.

Mio padre, d'altra parte, aveva del ruolo maschile un'idea maturata nell'immaginario collettivo di una stagione culturale equamente condivisa tra fascismo e un dannunzianesimo di maniera, fatto di citazioni dell'espressività dell'immaginifico, più che della sua opera letteraria; un immaginario nel quale l'uomo doveva essere stoicamente resiliente, anche se dentro coltivava dosi monumentali di risentimento.

Quell'impianto culturale non risentiva benevolmente dell'influenza di sua madre, con noi convivente, donna manipolatrice che non gli consentì mai di dimenticare quanto la sua nascita incise, negativamente va da sé, sulle sue aspettative, e che coltivava un odio sordo e implacabile verso la donnaccia, mia madre, che le aveva portato via l'ingrato pargolo, che tale era, anche da padre di famiglia.

Nei momenti di relativa calma, arrivava mia zia, sorella di mia madre, a smuovere un po' le acque, dato che la sua insoddisfazione di zitella, condizione peraltro scientemente perseguita e mitigata da diverse relazioni non impegnative, non accettava di buon grado l'altrui tranquillità, per quanto questa potesse essere occasionale.


Io e mia sorella, in tutto questo, venivamo più volte sollecitati a prendere posizione a favore di uno dei contendenti, cosa che ovviamente non riuscivamo a fare, dati i ruoli emotivi e familiari dei richiedenti, e sviluppammo ben presto un'acuta capacità dialettica, che ci serviva per veleggiare relativamente incolumi tra i ricatti morali incrociati che grandinavano sulle nostre gracili spalle.

A Natale però i miei genitori, ma non mia nonna, e neanche mia zia, facevano un tentativo serio di sedare i contrasti, perlomeno per quel giorno, e si sforzavano di arrivare al tramonto senza rinfacciarsi nulla e, anche se non sempre il tentativo aveva successo, l'intenzione c'era ed era a beneficio nostro, mio e di mia sorella.

Dunque, anche se i Natali tempestosi non sono stati meno di quelli tranquilli, quello era il giorno nel quale, se le cose andavano per il verso giusto, potevamo arrivare al tramonto senza psicodrammi.
Potrà sembrare, a questo punto, che quello che mi appresto a dire sia un esercizio di cinismo, da parte mia, ma quel tentativo di non indulgere in inutili conflitti era un regalo, e un gesto di amore che i miei genitori compivano nei confronti di noi bambini, e per me simboleggiava la magia del Natale, per quanto non molto affidabile.

Molti anni sono passati e la famiglia che ho formato non è disfunzionale come quella in cui sono nato, e anche se il Natale per mia moglie, figlia di un ferroviere che nei giorni di festa era quasi sempre di servizio, è una giornata collegata alla mestizia di un'assenza, 
rimane per me un giorno magico, anche se quella magia è maggiormente palpabile quando per casa ci sono bambini, cosa che, al momento, non avviene.

Un sincero augurio di Buon Natale a tutti.

giovedì 13 dicembre 2018

La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature. (F.D. Roosevelt)


Il New Deal fu una risposta conforme al paradigma liberista, seppure con colorazioni socialdemocratiche, al disastro economico del '29, indotto dal modus operandi di un liberismo finanziario sfrenato, bulimico e privo di progettualità, che aveva gettato gli USA, e gran parte del mondo, in una crisi economica nerissima e profonda.
Non molto organico nella sua implementazione, il New Deal fu ferocemente avversato dalle componenti più conservatrici della politica e della finanza statunitensi, componenti che poi addossarono a Roosevelt la responsabilità delle inefficienze dell’intervento roosveltiano, indotte proprio dalla loro reazione.
Tutti ricordano, di quel programma, le spese federali di sostegno al reddito, con vaste campagne di lavori pubblici, ma la parte più qualificante dell'intervento si concretò mediante la promulgazione di leggi strategiche volte a disciplinare l'azione degli attori dello scenario economico ed industriale.
Tra quegli interventi quello che ritengo più importante fu il Glass-Steagall Banking Act il quale, imponendo la separazione tra banche commerciali e banche d'investimento, aggredì alla fonte la causa principale o, meglio, il presupposto funzionale della catena di eventi che portò al tracollo finanziario culminato nel famoso giovedì nero.
Quella legge resistette indomita, nonostante le continue pressioni del mondo bancario e finanziario, fino al 1999 quando, durante il secondo mandato di Bill Clinton, venne promulgato il Gramm-Leach-Bliley Act, che abrogò quella separazione.
Fu una decisione tragica, che pose le basi funzionali per la famigerata crisi dei subprime del 2006, causa scatenante dell'attuale e più che decennale crisi economica che ci ha tutti fatti arretrare, nelle condizioni di vita, a livelli infimi e con prospettive di ripresa miserabili.
Parafrasando Clemenceau, che disse che la guerra è una faccenda troppo seria per lasciarla ai generali, direi che anche l'economia è troppo importante per lasciare che se ne curino banche e finanziarie.
Dovrebbe occuparsene la politica, ma non certo ciò che oggi passa sotto quel nome, non quella pletora di teste di legno, nel senso di prestanome al servizio delle esigenze della speculazione su larga scala, vera e propria banda di miracolati dalla visione strabica e con prospettive a raggio minimo, che infestano le strutture di governo e legislative di gran parte delle sempre meno rappresentative democrazie occidentali
Di certo non dovrebbero occuparsene i fantasisti oggi al potere nel nostro paese, equamente suddivisi tra analfabeti funzionali che giocano sulla fonetica sovrapponibile tra 2,4 e 2,04 per cento di deficit del PIL, come se l’improvvisa sparizione di circa 6,48 miliardi di Euro fosse un dettaglio ininfluente, e muscolari tromboni, facondi produttori di tweet incauti ed esternazioni fragorose per far dimenticare la totale inosservanza degli impegni presi in campagna elettorale.
Secondo Max Weber, un uomo politico deve possedere tre qualità, da lui definite sommamente decisive: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Se è così mi sa che siamo messi male.

lunedì 3 dicembre 2018

Lucciole per lanterne

C'è un pezzo di sinistra che parteggia per i gilet gialli e che è molto critica con chiunque ravveda in quel movimento qualcosa di molto simile ai nostri forconi, ovvero un moto, non esattamente spontaneo, di persone che hanno interesse ad incidere sulla sopravvivenza di un governo non su basi antagonistiche, o affermando principi altri rispetto a quelli agiti dall'establishment, bensì rivendicando la maggior copertura di interessi settoriali del tutto congruenti con quelli presidiati dal governo, ma non sufficientemente tutelati, almeno secondo il loro punto di vista.

La ragione, grottescamente meccanicistica, che motiva quella parte della sinistra, starebbe nel fatto che i gilet sono il popolo, e con la stessa miopia avrebbero potuto dichiararsi favorevoli  ai partecipanti alla marcha de las ochas vacìas (marcia delle pentole vuote), l'iniziativa politica della destra cilena che pose le basi del presunto appoggio popolare al golpe della giunta retta dal Generale Pinochet, grazie alla quale riuscì a portare in piazza persone adeguatamente spaventate da previsioni accuratamente mistificate allo scopo.

Qui, ovviamente, le condizioni sono diverse.   Macron è un populista che pende più a destra che a sinistra e che, agli occhi del popolo dei gilet gialli, ha il torto di rappresentare più le ragioni del capitale internazionale che quelli degli onesti bottegai che vorrebbero un sovranismo più popolare, una destra tutta beaujolais e camembert, in grado di rinverdire i fasti di una grandeur molto appannata.

I gilet gialli, a dirla tutta, sono il sogno bagnato della signora Le Pen, che da brava fascista gallica, ha nel proprio DNA i moti vandeani, e non certo il furore proletario della Commune Parisienne

Ma tant’è, i cipigliosi compagni cui dedico queste righe concepiscono i processi politici alla stregua di istruzioni di montaggio a la façon Ikea, e non è certo da oggi che non si accorgono di tenere in mano un foglietto girato sottosopra.
Sono in fondo gli stessi che, ai tempi della guerra delle Malvinas/Falkland, sfidando sprezzantemente il ridicolo, si dichiararono a favore dell'Argentina - ai tempi retta da una giunta militare con le mani lorde di sangue - perché si opponeva alla Gran Bretagna capitalista, borghese e complice degli USA.

Quel tipo di sinistra, fin dalla caduta del Muro di Berlino, non sta molto bene.

Costretta a prendere atto di non aver saputo fornire un'ipotesi operativa vitale e alternativa al capitalismo che ci sta portando alla morte, ha deciso... di far finta di niente.    
Ben lungi dall'affrontare le implicazioni di quel fallimento, non si azzarda neanche a fornire ipotesi operative autonome e dotate di un minimo di progettualità.

Di conseguenza, afflitta da nanismo progettuale e i
ncerta sulla propria capacità di analizzare realtà e processi, non ammette di non sapere che pesci pigliare, però vuole esserci comunque, riducendosi a prendere in appalto istanze, idee e iniziative altrui, anche molto differenti le une dalle altre, con implicazioni invariabilmente grottesche e con una persistenza, nei vari endorsement, non di rado assai effimera.

Ecco dunque che, in un ribollente calderone, entrano, ma anche escono sulla base di instant sentencies spregiudicatamente ondivaghe, cose, persone e progetti politici assai differenti.     Gilet gialli, Podemos, Corbyn, M5S, Melenchon e perfino i leghisti, se non proprio la Lega, basta che smuovano un po' di gente per meritare plauso e condiscendente approvazione, perché il dato quantitativo è divenuto supplente di un lato qualitativo rilevante sostanzialmente per la propria assenza.

In qualsiasi confronto di natura conflittuale, in ogni tipo di competizione, il dato strategico indispensabile consiste nel mantenere l'iniziativa, e questo è possibile solo se si è depositari di un'idea forte e si è elaborata un rotta efficace.
Fatevelo dire dai patetici grillini, che stanno subendo l'iniziativa delle vecchie volpi padane.


Già, bisogna che prima ammettano di essersi fatti infinocchiare.    Capisco, a questo punto, come questo fatto costituisca un punto di vicinanza con quei compagni.


domenica 25 novembre 2018

Ci sono così tanti modi terribili e intimi di subire una violenza. (Roxane Gay)

Dalla voce dedicata di Wikipedia:

"La Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è una ricorrenza istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica in quel giorno."

Qualcuno obietta che l'istituzione di questa ricorrenza sia un esercizio di mera ipocrisia, un sistema per mettersi in pace la coscienza senza mettersi in realtà in discussione, ma io credo che costoro si sbaglino.

L'estrema insidiosità dell'abito mentale che rende la violenza sulle donne un fatto normale, sta tutto nella sua sedimentazione in un tipo di cultura, anzi in culture, al plurale, che si rifiutano di riconoscere alla donna uno status pieno di persona umana, ponendola in una situazione intermedia tra un animale e un essere umano.

Se l’asserzione che precede vi sembra eccessiva vi invito ad esaminare le miserabili giustificazioni che danno, delle loro prevaricazioni, spesso omicide, coloro che trattano le donne negando loro la dignità di soggetti destinatari di pieni diritti, costantemente subalterne alle loro anguste visioni e sottoposte a crudeli ritorsioni ogni qualvolta dimostrino anche solo una larvata tendenza a non stare al loro posto.

Violenza sulle donne non è solo la percossa o, nei casi peggiori, il femminicidio.   Violenza è anche la molto più comune collocazione della femmina su un piano sociale subalterno che viene definito naturale, al fine di stroncare sul nascere qualsiasi aspettativa di autodeterminazione e di autoaffermazione, in uno schema che non è per nulla dissimile da quello che costituisce lo schema funzionale del razzismo nella sua forma canonica.

Si tratta però della manifestazione di una malattia sociale più insidiosa e virulenta del razzismo, in quanto colpisce la metà del genere umano basandosi su un elemento di differenza meno evidente del colore della pelle, ovvero la differenza di genere.

Si tratta di un criterio di discriminazione che, non basandosi su elementi esteriori abbastanza esotici, facilita la sua liquidazione quale fattore normale e implicito, giustificando di conseguenza le costruzioni ideologiche delle culture che relegano la donna in un recinto di subalternità abbastanza miserabile da giustificare ogni pratica di violenza, fisica ma soprattutto morale, che la colpisce.

Come il razzismo però, il sessismo serve egregiamente per veicolare le frustrazioni e l’aggressività di chi non sa affrontare la propria inadeguatezza e che finisce, come spesso accade, per colpire non chi è abbastanza potente da ridurlo in abiezione, bensì chi non è in grado di reagire o di intimidirlo abbastanza da fargli temere le conseguenze del suo agire.

Non si tratta solo di forza fisica.     E’ la statuizione di un rapporto subalterno a prescindere a dare all’aguzzino la forza per prevalere e a negare alla vittima l’impulso a difendersi.  

Stiamo parlando di condizionamento culturale, ovvero di qualcosa che non si può abolire per decreto e che la semplice volontà non riuscirà a domare rapidamente.
Per questo l’istituzione di una ricorrenza, come quella della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, non è una semplice formalità, ma deve essere accompagnata, per essere efficace, da una costante vigilanza e da un’altrettanto costante volontà di riconoscere e neutralizzare gli elementi mentali e comportamentali che creano i presupposti per la perpetuazione di quella violenza.

Non è facile.   Molti uomini neanche si accorgono di essere portatori di una cultura di sopraffazione, dunque non riconoscono i comportamenti, anche minimi, che rendono difficoltoso il suo contrasto e, se è per questo, anche molte donne sono indotte a condividere i presupposti del sistema che le tiene in soggezione.

Sarà forse per questo che un termine come femminicidio è stato così duramente osteggiato, anche da donne.      Riconoscere la specificità di una tipologia di omicidio è evidentemente troppo insidioso per chi vuole perpetuare questa antica malattia sociale;   significa che dobbiamo perseverare nel delineare sempre più precisamente i connotati del problema.

Ho scritto tutto quanto precede, dando piena espressione al mio sentire più intimo, eppure non sono esente da colpe.      Il condizionamento cui tutti siamo soggetti non dà tregua ad alcuno.  Nessuno è esente dall’accusa di essere portatore di comportamenti che costituiscono il brodo di coltura del fenomeno della discriminazione nei confronti della donna e delle conseguenze che ne derivano.

Tracce della subalternità a quella visione sono ovunque, e sono vissute come normali e scontate.      La visione di cui stiamo parlando si è affermata e consolidata moltissimo tempo fa e non basterà una ricorrenza per neutralizzarla, però quella ricorrenza, insieme ad altre e ad una maggiore consapevolezza, tra cui la coscienza che ci attende un compito arduo e di lunga durata, sono il passo necessario e indispensabile per correggere il problema e intraprendere il lungo cammino che ci attende.

Il sessismo, come il razzismo, ma anche come l’omofobia, è un condizionamento culturale precoce e instillato con grande determinazione, che viene inoculato, con malizia, cinismo e consapevolezza in tutti noi fin dalla più tenera età, quando siamo particolarmente indifesi, per poterlo poi contrabbandare come istinto, e dunque imprescindibile e inaggirabile, ma non lo è per nulla.

Siamo stati addestrati alla misoginia, non vi è nulla di naturale nel disprezzo che nutriamo verso la donna. 


sabato 17 novembre 2018

La fine di un sogno, ovvero quando la toppa è peggiore del buco.



In questi giorni un numero crescente di senatori pentastellati, ma analogo processo si agita nelle fila dei deputati, si ritrova a valutare la possibilità di non seguire gli ordini di scuderia che vengono loro impartiti.

La forte pulsione alla disobbedienza è il frutto avvelenato di un altrettanto forte disagio causato da ciò che il personale politico grilliano viene sollecitato ad approvare in aula, sempre più distante dalle promesse elettorali grazie alle quali il loro movimento, divenuto il primo partito italiano, si è insediato al governo della nazione.

Che le cose fossero destinate ad incancrenirsi lo si vide già ad inizio legislatura quando, verificato che la pretesa di conseguire la maggioranza assoluta si rivelò un sogno poco realistico, la strategia M5S, subito in affanno, non trovò di meglio che bussare alle porte di due nemici dichiarati, uno vero e l'altro teorico, per riuscire a capitalizzare un risultato elettorale importante, ma non abbastanza da consentire un monocolore a cinque stelle.

Messo alle strette, e timoroso di quello che un un immediato ritorno alle urne avrebbe potuto generare, lo stato maggiore grillino (eterodiretto da un anziano guitto e da una srl milanese) fece prima una mossa sostanzialmente propagandistica, proponendo una collaborazione al PD, l'arcinemico preso a palate di sterco per tutta la legislatura precedente.

Una mossa solo apparentemente incongrua, fatta solo per incassare il più che prevedibile gran rifiuto renziano e dunque porre le premesse per far digerire ad una base inizialmente stranita il necessario concerto con la Lega, ovvero con la germinazione di un neofascismo privo dell'apparato scenografico meloniano e reduce da un risultato elettorale appena discreto, conseguito peraltro quale membro di una coalizione i cui superstiti sono ora all'opposizione, o giù di lì nel caso dei nipotini del duce di Fratelli d'Italia.

Costruita dunque a tavolino l'oggettiva necessità, M5S si alleò, chiedo scusa, si obbligò contrattualmente con le vecchie volpi padane, che in breve tempo si sono impadronite dell'iniziativa e dell'agenda politiche, privilegiando le proprie battaglie a danno di quelle pentastellate, erodendone costantemente il consenso elettorale.

A distanza di pochi mesi le iniziative più qualificanti del Movimento sono ferme, o depotenziate, oppure ancora rinviate. I voltafaccia - TAV e TAP - si accumulano e le furbate da prima e seconda repubblica - condoni e provvedimenti ischitani ben nascosti dentro urgenze luttuose - si moltiplicano, secondo l'antica prassi democristiana.

Questo è quello che accade quando dei neosanculotti privi di acume e indebitamente spocchiosi scendono dall'empireo delle fregnacce per sbattere il cipiglioso grugno contro la realtà. 

La guida strategica del Movimento è fallimentare, mentre quella della Lega beneficia di una lunga esperienza e di un grado di cinismo terrificante.
Colpa dell'inesperienza? Vi piacerebbe eh? Sorry, no, colpa della presunzione.

Il problema però, dal punto di vista del guitto genovese e della srl milanese, è che alcuni parlamentari pentastellati credevano veramente alla narrazione grillina, e quando si sono proposti come candidati avevano realmente l'intenzione di realizzare il programma che oggi vedono così malamente tradito.

All'inizio hanno tacitato il loro disagio, dandosi il tempo di vedere se si trattava di sbagli o di malafede, ma ora evidentemente non riescono più a chiudere gli occhi di fronte all'evidenza, e dunque si trovano di fronte alla scelta se rimanere fedeli alla propria etica o divenire dei mercenari non migliori dei politicanti che hanno finora criticato con foga.

Alcuni quella scelta l'hanno già fatta e con limpida presa di posizione hanno espresso un voto contrario a quello imposto dall'alto, anche se Di Maio ed altri suggeriscono miserabili interpretazioni legate ad un presunto tornaconto economico, altri invece hanno optato per assenze strategiche o imbarazzate astensioni.

Il gruppo dirigente pentastellato, con piglio cesarista e supremo disprezzo di dialettica e democrazia interne, ha già fatto la faccia feroce, comminato sospensioni e minacciato espulsioni, minaccia peraltro rinforzata dall'impegno a suo tempo sottoscritto dagli eletti - con una clausola smaccatamente vessatoria - a corrispondere una penale ridicolmente elevata di 100mila Euro.

Quell'impegno non è altro che l'introduzione, surrettizia e indebita, di un vincolo di mandato, espressamente vietato dall'art. 67 della Costituzione, che recita:

Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato

Considerato poi che il referente ultimo dei parlamentari grilliani sembra essere la più volte ricordata srl milanese, mi chiedo se valga di più il giuramento prestato alla Repubblica o un impegno di natura commerciale, per di più con evidenti vizi di forma, a favore di un'impresa privata nell'espletamento di un alto servizio pubblico.

Fossi un eletto grillino dissidente andrei a vedere il bluff e mi farei trascinare in tribunale. Non credo infatti che un giudice anteporrebbe gli obblighi di natura costituzionale a quelli di matrice privatistica, e credo che mi potrei prendere una bella soddisfazione.

venerdì 12 ottobre 2018

Democrazia, arresto in corso.


Prendo spunto, per questa riflessione, da un articolo di Sabino Cassese, pubblicato sulla rubrica Opinioni del Corriere della Sera il 10 ottobre 2018, dal titolo Ma Di Maio non lo sa.

Il sommario dell'articolo riporta il concetto centrale che ispira il ragionamento di Cassese, e recita:


Luigi Di Maio, nel fare la voce grossa, commette l’errore di confondere il governo con lo Stato. Errore che commette di frequente, quando, ad esempio, invita presidenti di enti a dimettersi, o pretende che alti funzionari dello Stato godano della sua fiducia
Credo che Di Maio, con la granitica certezza di incarnare il concetto stesso di virtù, che è proprio dei neosanculotti pentastellati, e la altrettanto tipica refrattarietà agli schemi complessi delle attività umane, non possa astenersi in alcun modo dal commetterlo quell'errore.


Di mio aggiungo che il suo collega Salvini non è da meno, anche se quello del tracotante padano sembra essere, più che un errore, un consapevole esercizio di arroganza da attribuire ad una vocazione autoritaria di stampo neofascista, seppur priva degli aspetti araldici che tanto piacciono ai nipotini del Duce italico, che però vengono ampiamente compensati da un instancabile ricorso a citazioni, più o meno rimaneggiate, del defunto dittatore predappiano.

Un grande vecchio liberale e facondo produttore di massime ed aforismi, Winston Churchill, che pure aveva della democrazia una visione intrinsecamente classista, essendo egli figlio della nobiltà britannica, sosteneva che:
La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.
La democrazia non è solo l'ideale di un sacrosanto diritto di espressione per tutti, ma anche un sistema di governo basato su un accorto schema di bilanciamento di poteri ed istituzioni che devono rimanere indipendenti ed autonomi, per garantire pluralismo, rappresentanza di tutte le istanze, nei limiti della loro consistenza tra gli elettori, garantendo, in un meccanismo spesso molto complesso, l'esistenza di pesi e contrappesi atti ad evitare l'insorgenza di arbitrio e parzialità.


Nel nostro ordinamento la Costituzione stabilisce con grande efficacia i contorni operativi e normativi di quello schema di bilanciamento, e se pare abbia qualche pecca io credo che la cosa vada ricondotta ai limiti di chi la deve interpretare ed attuare, limiti che, purtroppo, sono sempre più frequentemente ascrivibili a consapevole malizia, e non a semplice incapacità.


Non è un sistema infallibile, e neanche particolarmente efficiente, ma a conti fatti e nel lungo periodo si è rivelato tra i migliori.
Qualcuno si ostina a sostenere che i regimi dittatoriali, o perlomeno autoritari, siano maggiormente efficienti, dato che eliminano sul nascere le complessità che scaturiscono una eccessiva varietà di opinioni, con l'importante implicazione che ne basti una.


Sembrerebbe banale sostenere che semplificando, con effetti invariabilmente letali, l'azione di governo grazie alla rimozione dell'opposizione si ottenga un grado superiore di efficienza e focalizzazione, ma il bilancio deve essere sempre stilato sul lungo periodo, ed i regimi autoritari finiscono sempre con devastanti implosioni precedute da progressiva sclerotizzazione degli aspetti vitali della società e della nazione che ne patisce il predominio.


Che questo avvenga perché nel tentativo di superare le contraddizioni interne ci si risolva ad aggredire un nemico esterno convenientemente identificato - Terzo Reich e Giunta Argentina, per esempio - o che si muoia d'inedia dopo una lunghissima malattia - Franco e Salazar, ma anche molti regimi del socialismo reale, tra cui quello nordcoreano, vivo per mero accanimento terapeutico - non fa molta differenza. La maggiore efficienza di dittature e regimi autoritari è una panzana screditata da verdetti storici che si susseguono con impressionante invariabilità, e solo la malafede di alcuni, l'ignoranza di altri e la corta memoria di chi ha orizzonti temporali minuscoli permette che continui a perpetuarsi.


Nel nostro paese, la democrazia ha sempre dovuto combattere contro nemici potenti ed insidiosi, che ne pregiudicavano l'applicazione, e sottostare a condizioni oggettive geopolitiche fortemente invalidanti – confronto est/ovest in quanto marca di confine dell'impero di fatto nordamericano – e da ultimo subire la rivoluzione iperliberista globale, partita dalla crisi economica di dieci anni fa, e agita attraverso lo snaturamento e svuotamento delle istanze democratiche vitali e maggiormente rappresentative: marginalizzazione del potere elettivamente identificato, neutralizzazione dei corpi intermedi, intossicazione della libera informazione e preminenza delle ragioni di settori ristretti della società.

La democrazia, sempre cagionevole, è ora gravemente ammalata, e il morbo è globale, cosa che dovrebbe scuoterci da un certo ridicolo provincialismo e dalla solita contemplazione del proprio ombelico.

Stiamo correndo rischi tremendi, perché abbiamo perso una componente fondamentale dell'equilibrio politico e sociale, ovvero una visione autenticamente antagonista rispetto a quella variamente declinata da chi gestisce il potere e chi sostiene di opporvisi, ma solo per imporre la propria lettura di un identico paradigma.


Se, con una certa frequenza, emergono atteggiamenti critici verso le contraddizioni del sistema democratico, ciò avviene per la scarsa pazienza, e superficialità, di alcuni, per l'oggettivo stato di disagio che coglie chi viene colpito dagli effetti di una crisi e non può permettersi un distacco da un'emergenza devastante, e per l'atteggiamento mentale di un canagliume politico e sociologico che è abituato ad anteporre le proprie visioni ed aspettative a tutto.

La continua rivendicazione dei due vicepremier gialloverdi di rappresentare la volontà del popolo italiano, peraltro priva di riscontro fattuale dato che son ben lontani dal rappresentarlo nella misura che si attribuiscono, denota chiaramente una strutturale insofferenza per le complicazioni democratiche ed una naturale consonanza con modelli autoritari e presuntamente semplificati.

Tutti i provvedimenti e le innovazioni promesse durante una campagna elettorale che non ha mai conosciuto soste, da ancor prima delle politiche del 2013 e che perdura tuttora, si stanno rivelando inattuabili, quando non incostituzionali, o attuabili con conseguenze devastanti sul medio e lungo periodo.


Ma non è solo questo, trattandosi infatti del prodotto di una visione propagandistica, ottimizzata per il semplice successo elettorale ed elaborata da menti semplici e per menti semplici, o per conquistare il favore di individui in forte affanno, chi le ha pensate non si è mai posto il problema della loro implementazione pratica, della loro sostenibilità sotto l'aspetto operativo.

Il risultato è che nel momento della loro formalizzazione emergono contraddizioni, incongruenze e impossibilità tecniche di ogni tipo, cui si pretende di rimediare con genialate da creativi di terza categoria in pieno brainstorming etilico, indulgendo nell'antico proverbio che parla di toppe peggiori del buco.

Noi non siamo ancora in un regime autoritario, ma stiamo ingegnandoci per cascarvici dentro. Nel frattempo abbiamo anticipato l'abito mentale di devastante inefficienza gestionale che li caratterizza.




venerdì 5 ottobre 2018

Ci sarà pure un giudice a Berlino

La Magistratura ha applicato gli arresti domiciliari a Mimmo Lucano.
Si tratta di una misura cautelare. Questo significa che il provvedimento è comminato per una o più delle seguenti fattispecie:

  • gravi indizi di colpevolezza;
  • rischio di inquinamento delle prove;
  • rischio di fuga dell'imputato;
  • rischio di reiterazione del reato.

Mimmo Lucano, al momento in cui scrivo è ristretto ai domiciliari, ma non è ancora legalmente riconosciuto colpevole di alcunché, e anzi il suo stato non è ancora quello di imputato, bensì di indiziato.
Lo stato di colpevolezza potrà sussistere, eventualmente, solo dopo il terzo grado di giudizio, o prima se l'imputato, qualora lo divenisse, non dovesse optare per i ricorsi.
E in fin dei conti non è escluso che il tutto si risolva ancor prima di avvicinarsi ad un'aula di tribunale, se Lucano non verrà rinviato a giudizio per insussistenza dei reati contestatigli.


La Lega, comunque e per pronto accomodoesulta e loda l'operato della Magistratura.  Curioso, ma non certo  inaspettato il forte strabismo legaiolo. Quella Magistratura è infatti la stessa che il tetro Salvini aveva poche settimane prima svillaneggiato, a seguito della conferma, definitiva stavolta e con correlato status di colpevolezza, della sentenza di sequestro di 49 milioni di Euro, frutto della truffa ai danni dello Stato, perpetrata dalla Lega tra il 2008 ed il 2010.    Un robusto appetito, mi sento di dire.

Salvini si espresse con grande arroganza, profondo analfabetismo istituzionale e inossidabile visione autoritaria, ricorrendo alla pretestuosa sottolineatura del fatto che i giudici non godono del voto popolare, al contrario di lui.     E tanti saluti alla Costituzione, che il testosteronico segretario legaiolo avrebbe giurato di difendere quando divenne ministro della Repubblica, al principio di separazione dei poteri ed anche al senso del ridicolo, in quanto il suo partito ha ricevuto certamente una legittimazione popolare, ma senz'altro non plebiscitaria quanto pretende di spacciare, trattandosi di meno del 13,07% (il 17,37% del 75,24% degli elettori che hanno espresso un voto) degli aventi diritto.   


E comunque la cosa non ha alcuna importanza.  Anche se la Lega rappresentasse il 100% del popolo italiano, cosa che è assai lontana dal fare, la Magistratura in questo paese non è elettiva, in conformità alla nostra legge fondamentale.
Questa è la regola, e per cambiarla bisogna mettere in atto un processo di revisione costituzionale che, al momento, è molto al di fuori delle capacità dei maneggioni al potere.

Più neutro l'accoglimento della decisione dei giudici di concedere alla Lega comodissime rate di rientro - 100.000 Euro ogni due mesi su base volontaria - perché se da una parte rimane, bruciante, il verdetto di colpevolezza, dall'altra si evitano intrusioni investigative, pericolose e scomodissime, nelle faccende finanziarie del partito, che a questo punto devo sospettare di un tasso elevato di opacità.

Una decisione, quella del Tribunale di Genova, che qualcuno attribuisce a criteri pragmatici - la procura penserebbe così di ottenere l’intero tesoro senza dover investire tempo e risorse per andarlo a cercare - ma che io ritengo essenzialmente politica, e come tale non proprio esente da critiche, provenendo dal potere giudiziario, presa per non causare la scomparsa, legalmente parlando, di un partito di governo, con le tempeste che ne sarebbero seguite.        E' la mia un'ipotesi, che prende atto dello stato di profonda debolezza degli assetti democratici ed istituzionali della Nazione.

Sospetto anche che qualche barbaro sognante conti sulla grottesca dilatazione temporale - 80 anni - della rateazione per spuntare, a tempo debito, un effetto Germania.
Quel paese infatti, riuscì a non pagare i mostruosi indennizzi, accumulati in ben due guerre mondiali, per l'aggressione ai propri vicini e l'occupazione di larghissima parte del continente europeo, col semplice espediente di allontanare di decenni il momento del saldo da quello dei delitti perpetrati.

Rimane il fatto che la Magistratura svolge il suo compito, e che se talvolta pensiamo che i suoi componenti possono essere meno super partes di quanto sarebbe auspicabile, il sistema è congegnato in modo da minimizzare letture personali ed interessate da parte dei suoi sacerdoti togati.   

La Magistratura amministra la giustizia in conformità al corpus di leggi che promana dal potere legislativo.  Io posso dispiacermi, talvolta, dell'operato dei magistrati, ma frequentemente questo dispiacere discende più dalle leggi promulgate che da come vengono amministrate.

Il caso di Mimmo Lucano, in questo senso, è illuminante.   Il sindaco di Riace, infatti, è stato messo agli arresti domiciliari principalmente in forza di leggi volute fortemente dai partiti di centrodestra, tra cui appunto la Lega, che si sono letteralmente inventati il reato di immigrazione clandestina a carico di ciascun immigrato, facendo diventare delinquenti dei poveri disgraziati, non differenti dai milioni di italiani che in passato, ma anche in questo stesso momento, sono fuggiti dalla propria terra per cercare fortuna dove si stava un po' meglio.

Stare di mazzo, come fanno i grillo-legaioli, è comodo.  Se poi hai la faccia da intramuscolari e sei privo di senso della decenza non ti ferma più nessuno, o no?


mercoledì 12 settembre 2018

Occorrerà un giorno smettere di confondere ciò che si vende e ciò che è bene. (Bob Dylan)

Vedo con somma tristezza che nel popolo della sinistra ci si accapiglia sulle aperture domenicali con grande foga.

C'è chi, giustamente, ricorda che vi fu un tempo nel quale i sindacati fecero una battaglia per impedirle, venendo sconfitti evidentemente, e chi si rammarica per le pulsioni oscurantiste di chi le vorrebbe abolire, mettendo nello stesso paniere poliziotti, personale sanitario, camerieri, ristoratori, commessi di negozio, addetti della GDO, venditori di servizi telefonici al volo e baristi, come se pronto soccorso e pronta disponibilità di un paio di pedalini fossero la stessa identica cosa.

Molti si mettono di traverso solo perché la proposta è grillina, altri invece si preoccupano per i posti di lavoro che salterebbero, pochi si ricordano che il provvedimento di liberalizzazione di orari e aperture risale al governo Monti, cosa che in un animale di sinistra dovrebbe indurre massima diffidenza.

Io dico solo che queste aperture si reggono su due elementi precisi.   Il primo è il quadro desolante delle condizioni contrattuali di chi lavora le domeniche, la notte e le feste comandate.  

Parliamo di lavoro precario, retribuzione inadeguata, turni decisi con scarso o nullo preavviso e ricorsi a ore straordinarie, pagate una miseria, anche per personale teoricamente part time.
Parliamo anche del fatto che questo quadro normativo è reso possibile da una situazione  lucidamente indotta da condizioni ricattuali del tipo "se non ti sta bene qui fuori c'è la fila di gente che vorrebbe tanto sostituirti". 

Si perché la storia dei posti di lavoro che saltano è una solenne cazz..., pardon, corbelleria. 
La condizione normale del lavoro, oggi e non solo nella distribuzione, è quella della pianta organica sottodimensionata e asfittica.  Nessuno assume di più per tenere aperto la domenica, ma spreme per bene l'organico già insufficiente per massimizzare i ricavi, calpestandone diritti e aspettative.

Il secondo elemento è l'ottimizzazione dell'estrazione di valore dal cliente consumatore, con bisogni indotti da martellanti consigli per gli acquisti, offerte irripetibili costantemente reiterate, sconti stranamente permanenti e acquisti non strategici, lubrificati dalle più grottesche tecniche marketing.

Una clientela che peraltro ha la funzione principale di comprare, e non più solo di accudire le proprie esigenze, trasformata nella parte finale di un processo che tra le sue finalità vede la remunerazione del commercio e della produzione.   Che poi si comprino beni e servizi realmente utili non interessa più a nessuno, sempre più spesso neanche al consumatore.

Dice: ci si oppone al progresso e alla modernità, e giù commenti sul nostro provincialismo.  Già, provate a comprare qualcosa nel nord europa dopo le 17.00, e poi ne riparliamo.

Dice: tante storie e poi c'è l'e-commerce che fa le scarpe a tutti.
A parte che in quel settore vigono le stesse caratteristiche dei canali tradizionali, ma moltiplicate per cento, con lavoratori in condizioni paraschiavistiche e volatilità occupazionale elevatissima, a nessuno viene in mente che l'e-commerce vincerà la battaglia senza neanche alzare le chiappe dalla poltrona?


Non è favorendo le aspettative della GDO che questa riuscirà a difendersi da Amazon (di negozietti e piccoli empori ce ne stiamo tra l'altro fottendo tutti quanti, perché sono già storia), e in fondo a noi, nella nostra qualità di compratori coatti, dovrebbe importare poco chi l'avrà vinta. 
Di chiunque si tratti infatti, una volta strappata la posizione dominante i prezzi torneranno a salire, e i disoccupati, sottoccupati, sottopagati ed ipersfruttati continueranno ad essere la rotellina di un sistema iperliberista autoreferenziale e dissipativo.

Il popolo di sinistra si accapiglia sull'apertura dei negozi, mentre invece dovrebbe occuparsi delle condizioni di chi lavora e ancora prima dell'occupazione.

La triste realtà è che oltre alla lotta di classe, che stanno vincendo loro (Buffet dixit), è in corso quella che un tempo avremmo definito battaglia culturale, e stiamo perdendo anche quella.  Discutiamo di quello che decide il mazziere e non di quello che dovrebbe riguardarci da vicino.

lunedì 10 settembre 2018

There's these guys, PD's supporters...

Tenterò un incipit dal vago sapore americano, there's these guys, PD's supporters, ovvero ci sono questi tizi, sostenitori del PD, che si fanno uscire ernie inguinali nello sforzo titanico di far dimenticare che il loro amato partito è stato l'architetto ed il responsabile implicito e principale degli attuali assetti politici e di potere che vigono nel nostro paese.


Sono gli stessi che si ingegnano a ridare una verginità incongrua al naturale prodotto di quel partito, ovvero quel Matteo Renzi che ha gestito la mutazione genetica di una formazione politica di prima grandezza, erede di due grandi tradizioni politiche, quella socialista e quella del cristianesimo sociale, in un partito di seconda schiera da collocare, per effetto delle sue scelte strategiche e dell'azione governativa svolta, tra le fila di un centro-destra moderato di stretta osservanza liberista.

Quel partito ha condotto, negli anni, una costante e purtroppo fruttuosa opera di demolizione e neutralizzazione dei corpi intermedi, in primis il sindacato quale istituzione, ha distrutto lo Statuto dei Lavoratori, tentato lo stravolgimento della nostra Costituzione, promulgato un Job Act che a sua volta è stato reso pressoché inutile dalla promozione, invereconda e irresponsabile, del precariato in ogni forma possibile. 

Forse è possibile apprezzare, si fa per dire, la cifra reale dell'operato PD sottolineando che i dem sono riusciti laddove Berlusconi fallì, salvo che nello stupro della Costituzione, che fortunatamente non riusci a nessuno di loro, finora.


Ma non si è limitato a questo.      Facendo aderire alla propria identità la qualifica, sempre meno congrua, di partito di sinistra ha delegittimato quella parte politica, facilitando enormemente la propaganda di chi ne ha poi maggiormente beneficiato, ovvero M5S e, per il traino irresponsabile da questo propiziato, la Lega.

Con la parola sinistra ormai squalificata, la destra ha avuto gioco facile ad appropriarsi delle istanze di un vasto popolo messo in condizioni di vita difficili e faticose dalle scelte di governo del PD il quale, accanendosi senza poter vantare una statura morale adeguata (la magistratura si è occupata a ripetizione del personale politico dem) contro i sanculotti 2.0 del Movimento, ha spianato la strada all'avvento dell'attuale compagine governativa.

Ora, a disastro avvenuto, il PD cerca di intestarsi la titolarità della nuova Resistenza, nientemeno, 
o quanto meno di ritagliarsi un posto in prima fila, senza uno straccio di autocritica e senza rinnegare alcuna delle scelte operate, permettendosi inoltre di accusare di fiancheggiamento a favore dei grillolegaioli chiunque si permetta di ricordare che dell'avvento del fascismo in camicia verde dobbiamo ringraziare esattamente il PD e la sua opera di promozione delle istanze ordoliberiste che ci stanno massacrando.

Il PD, molto semplicemente, sta tentando di rimontare in sella, e se dovesse riuscirci non farebbe altro che riprendere da dove si è interrotto, mentre noi dobbiamo ricostruire un settore politico, la sinistra, la cui assenza rende il quadro istituzionale asimmetrico e pericoloso.

Non passa giorno che non accada di scontrarsi con qualche inossidabile sostenitore del PD, dalla monumentale faccia di bronzo, che non si periti di dare lezioni di vita, e di sagacia e convenienza politica, oltre a patenti di tradimento, a chiunque mostri di non gradire la loro compagnia nel percorso che ci attende.

Nel farlo inoltre non mancano mai di ricordarci che nel '43 la Resistenza accolse perfino i monarchici (aspetto che dovrebbe farci capire quanto siano in malafede), dimenticandosi peraltro che ai tempi eravamo una monarchia, cosa che dava a quella parte politica un peso che il PD non può ora vantare, e che dopo la Liberazione quei monarchici si allearono coi neofascisti.

Con dimostrazione di imperiale faccia tosta, inoltre, il front man di questa spregevole manipolazione è proprio il guappo di Rignano, il tristo figuro che ci ha massacrato lo scroto, ai tempi del suo fugace apogeo, con la sua capacità di vincere, prendendoci tutti per il culo per la nostra (dei tristi compagni all'antica, per dirla come lui) coazione a perdere, anche se alla fine il tonfo l'ha fatto lui, lasciandoci il conto da pagare. 


La domanda è:


Hanno distrutto il partito e la sinistra in generale e adesso dovremmo avvalerci della loro fine sensibilità strategica?

A sinistra abbiamo molti e insopprimibili vizi: la tendenza a frazionarci, la mancata elaborazione del lutto conseguente al fallimento del socialismo reale e l'inefficace individuazione di una posizione intermedia tra idealismo e pragmatismo, con una tenace tendenza a rivoltolarci in un brago maleolente di realismo politico in stile patto Ribbentrop-Molotov.

Impareremo mai?

giovedì 5 luglio 2018

Immigrati, per favore, non lasciateci soli con gli italiani...


C'è questa mia amica, che ha vissuto una vita di impegno coerente e disinteressato a favore di valori che vedono la solidarietà e la giustizia sociale quali riferimenti imprescindibili, che è stata criticata da un suo interlocutore circa la questione degli immigrati.

A fronte di sue considerazioni circa il disastro umanitario conseguente alla decisione di adottare la chiusura totale dei porti si è vista rispondere da qualcuno che rivendica, illecitamente mi pare, la qualifica di compagno:
«È vero: c'è un abisso tra me e te. Io sono per aiutarli nelle loro terre (è un loro diritto dopo le depredazioni che hanno fatto i nostri predecessori) mentre tu non ti rendi conto che in Europa i migranti saranno solo schiavi.»
La cosa è avvenuta nel quadro di una più ampia ed aspra rampogna che ascriveva il desiderio della mia amica, di non dover più procedere ad atroci conteggi di cadaveri, ad una sorta di fiancheggiamento di qualche vasto complotto capitalista per la formazione del proverbiale esercito salariale di riserva di marxiana memoria, un'argomentazione capziosa, e assai opaca, a fronte della situazione effettiva che occupa le cronache.

Un dibattito tra i più miserabili di cui ho avuto a mia volta esperienza e che, proveniente non da qualche leghista uscito indenne dalla scuola dell'obbligo, ma da qualcuno che ha l'ardire di collocarsi a sinistra, ha il potere di farmi uscire dai gangheri.

La mia amica ha comprensibilmente accusato il colpo, perché è veramente sgradevole subire attacchi proditori e portati dalle retrovie.
Ci sono persone con le quali si dovrebbero condividere valori ai quali si è dedicata una parte importante della propria esistenza, e vederli prodursi in sentenze così grette, stupidamente parziali e anche, sospetto, strumentali e ipocrite, fa abbastanza male.

Per questa ragione, e dato che lo scenario mi sembrava abbastanza definito, ho commentato molto seccamente, e senza fare riassunti delle puntate precedenti:

«Chi ti ha dato quella risposta o è un imbecille o ha la faccia come il culo, dato che non ci sono altre alternative per non prendere atto delle motivazioni alla base del fenomeno delle migrazioni.»
Non molto elegante, ne convengo, però io sono esasperato dalla sindrome nazisti dell'Illinois che sta imperversando nel nostro paese, soprattutto quando certe canzonette me le vengono a cantare compagni che, magari, danno anche lezioni di dottrina marxista-leninista a tutti quanti.

Sono stato immediatamente
punito dalla seguente sentenza, forse scritta addirittura dal bersaglio della mia critica:
«Visto che ti piace insultare la gente ti dico che sei un frustrato ed anche un ignorante non in grado di produrre analisi che stanno in piedi.»
Sorvolando sulla padronanza avventurosa della lingua, trovo curioso che per condannare la mia assertività non si trovi di meglio che essere altrettanto apodittici. Solo che la stringatezza di cui vengo accusato è frutto della consapevolezza, da parte mia, che le considerazioni che passo ora ad illustrare fossero già state esaminate nella discussione che ha originato il battibecco.

È del tutto evidente, soprattutto se ti professi di sinistra, che il fenomeno migratorio non è contenibile al di fuori di una politica che rinunci al neocolonialismo predatorio, quello che sottrae agli abitanti del terzo mondo la disponibilità delle proprie risorse naturali e la gestione di agricoltura ed allevamento. Ciò atteso, non mi sembra opinabile la constatazione che tale furto di risorse e sovranità sia esercitato tramite guerre e fomentando conflitti etnici, con tutto quello che ne consegue.

Ora mi si dirà, come lo sprovveduto (a essere benevoli) che ha originato questo
botta e risposta, che quelle popolazioni vanno aiutate a casa loro, e io concordo, solo che al momento non è che la cosa funzioni benissimo, dunque la gente che bisognerebbe aiutare altrove arriva comunque, e allora:
- o la accogli decentemente;
- o la lasci alle
cure di malavita e proprietari terrieri;
- o la fai annegare nel Canale di Sicilia;
- oppure paghi dittatori e predoni perché ne facciano carne di porco.

Non è che ci siano molte alternative, mi pare.

Ebbene, dal basso del mio essere
frustrato e ignorante dico che le nostre qualità umane, non meno della nostra identità politica, sono definite dalla soluzione che prediligiamo, possibilmente senza monumentali scusanti ipocrite su svariati si, ma, tra cui il a casa loro.

Io, per dire, sarei per accoglierli decentemente, ma sono frustrato e ignorante, come abbiamo già appurato.

Per la cronaca io aiuto a casa loro molti ragazzi, dato che sono socio di una ONLUS che opera in Tanzania, e che ha
adottato un orfanotrofio.
Facciamo molte cose, assicuriamo vitto, alloggio, cure mediche ed istruzione.

Qui da noi ci sono africani, ma anche mediorientali, di tutti i tipi, e anche molti
migranti economici, distinzione speciosa e merdosamente ipocrita che la destra ha fatto ingoiare a tutti, e vengono da molti paesi, ma pochissimi dalla Tanzania, perché quel bellissimo paese è povero, però pacifico e stabile e 
non è funestato da guerre civili o da mattanze etniche, grazie alle strategie impostate dal suo primo presidente il mwalimu (maestro) Julius Nyerere.
Lì è relativamente facile aiutare a casa loro. Nel vicino Congo è già un pelino più scoraggiante, per dire.

Dunque non mi scuso di nulla e ribadisco che quel compagno o è eccezionalmente ottuso, oppure ha una coda di paglia monumentale. Oppure ancora siamo in presenza di un arcigno custode dell'ortodossia rivoluzionaria, di quelli che citano a memoria la lettera, avendo compreso nulla del contenuto, cosa che, in fondo, è una sintesi delle due prime ipotesi.

venerdì 15 giugno 2018

Prendo atto.

Mi arrendo.  


Devo prendere atto che una parte fin troppo consistente dei miei conterranei, dei cittadini di una nazione che ha generosamente seminato i suoi figli per tutto il pianeta, e che tuttora li semina, è animata da una xenofobia aggressiva e miserabile, impermeabile a qualsiasi valutazione oggettiva, prima ancora che ad un sentimento di umana solidarietà.

Poi, certo, la domenica, sulle panche di qualche chiesa, molti di loro indulgono in una professione di fede di cui non hanno capito nulla, e seminano i loro profili social di immagini sacre, di gattini pucciosi, augurando disgrazie e morte a chiunque abbia l'ardire di criticarli, ché la decisione sulle vite da salvare, o stroncare, degne o meno di essere vissute, è a loro esclusiva discrezione e sottostante a criteri ad assetto variabile e contingente.

Prendo atto pure del fatto che non gradiscono essere contraddetti, dato che evidentemente sono fragili nelle loro contraddizioni, negate, ma non troppo efficacemente sembrerebbe, al punto che la minima sottolineatura della loro suprema indifferenza sostanziale dei valori che pretendono di difendere li precipita in un urlìo scomposto e turbinante di insulti, disprezzo e, non di rado, minacce.

Prendo atto pure che quel sentire minaccioso e gelidamente disumano si identifica, anche questa volta, con un sentire politico preciso, che è a lungo rimasto sotto una viscida pietra, a vegetare, nella silente e sardonica attesa del momento giusto per riemergere e spargere il suo veleno.

Ora capisco meglio quella fase della nostra storia nella quale un sovrano, fellone e cinico, ha appaltato ad un losco tribuno della plebe, egocentrico e furbastro, la gestione della cosa pubblica.  
Capisco meglio i lunghi anni di festosa accondiscendenza, di adunate oceaniche, di bocconi indigesti ingoiati a prescindere, di guerre di conquista, di nemici esterni cui rivolgere il risentimento per i problemi interni, irrisolti e incancreniti, perché, naturalmente, gli interessi tutelati non erano certo quelli del popolo plaudente. 
Capisco i me ne frego, i noi tireremo dritto e le stucchevoli canzonette da avanspettacolo alla "sanzionati questo / Albione rapace / lo so che ti piace / ma non te lo do".


Oggi non c'è neanche più bisogno di un re sciaboletta, facciamo tutto da soli, e comincio a pensare che la Repubblica nata dalla Resistenza abbia i giorni contati, che il nostro popolo sia tuttora un aggregato di individui rancorosi e individualisti, che sopportano di stare nella merda solo quando gli altri stanno peggio di loro, e che non fanno nulla per migliorare la loro situazione, perché farlo comporta obblighi di cui non vogliono farsi carico.

Prendo atto pure del fatto che tra le mie stesse fila, in quel popolo di sinistra che io credevo coerente e pugnace, la veste del sincero democratico per molti era solo un paludamento ingombrante, pronto a cadere con una facilità sconvolgente, a dimostrazione del fatto che certi valori erano prevalentemente recitati.

Ho fatto girare un sondaggio dell'Espresso sull'operato di Salvini, invitando i miei contatti ad esprimere il proprio voto, e perlomeno in un caso mi è stato risposto:


"Non voto su Repubblica,non è più il mio giornale. Salvini secondo me ha sbagliato, prima doveva accogliere gli immigrati, poi andare in Europa a battere i pugni sul tavolo. Comunque in questi anni,il problema degli immigrati è stato gestito malissimo e la gente non ne può più. Per questo molti italiani,anche di sinistra,hanno votato Lega e 5 stelle". 

In prima battuta la ragione oggettiva, poi la valutazione scontata e, a seguire, il pensiero vero, che sarebbe la constatazione che la gente ne ha pieni i coglioni degli immigrati e che dunque chi ha votato Lega e 5Stelle ha sbagliato, ma non troppo, e per questo lo hanno fatto molti, sedicenti, di sinistra.   Una resa totale, anzi poco meno di un'adesione, ma ipocritamente dissimulata da un presunto pragmatismo.

Prendo atto di far parte di una minoranza e mi rendo conto che discutere di quello che farà questo disgraziatissimo governo significa solo raccogliere insulti e commenti acidamente divertiti sul rosicamento che secondo quei deficienti, nel senso di "notevolmente scarsi sul piano della disponibilità o del rendimento",  è l'unico sentimento che posso provare.

Io so che questa stagione pentalegaiola sarà lunga e che, come quella fascista che l'ha preceduta, finirà malissimo, lasciando una nazione desertificata e in ginocchio, come so che molti degli attuali festanti e plaudenti  elettori  diverranno, repentinamente e a giochi finiti, fieri critici dei delinquenti, perchè tali immancabilmente diverranno, che loro stessi insediarono, perché la colpa è sempre degli altri.
Del resto nel '45, e fino ai tardi anni '60, fu molto difficile trovare qualcuno che ammettesse di essere stato fascista, così come, nel 2011, la corposa rappresentanza di berlusconiani espliciti  divenne improvvisamente striminzita.

So anche che non camperò abbastanza per vedere questi rancorosi difensori dell'orgoglio italico finire col culo per terra, ma forse lo vedrà mia figlia, alla quale ho fatto il torto di lasciare in eredità questo merdaio.


Prendo atto che ho vissuto un'intera vita illudendomi di vivere in un paese diverso, condividendo la cittadinanza con persone di cui non avevo capito nulla e la militanza con gente dalla coerenza gracile.

Un bilancio fallimentare, ma devo prenderne atto.