venerdì 12 ottobre 2018

Democrazia, arresto in corso.


Prendo spunto, per questa riflessione, da un articolo di Sabino Cassese, pubblicato sulla rubrica Opinioni del Corriere della Sera il 10 ottobre 2018, dal titolo Ma Di Maio non lo sa.

Il sommario dell'articolo riporta il concetto centrale che ispira il ragionamento di Cassese, e recita:


Luigi Di Maio, nel fare la voce grossa, commette l’errore di confondere il governo con lo Stato. Errore che commette di frequente, quando, ad esempio, invita presidenti di enti a dimettersi, o pretende che alti funzionari dello Stato godano della sua fiducia
Credo che Di Maio, con la granitica certezza di incarnare il concetto stesso di virtù, che è proprio dei neosanculotti pentastellati, e la altrettanto tipica refrattarietà agli schemi complessi delle attività umane, non possa astenersi in alcun modo dal commetterlo quell'errore.


Di mio aggiungo che il suo collega Salvini non è da meno, anche se quello del tracotante padano sembra essere, più che un errore, un consapevole esercizio di arroganza da attribuire ad una vocazione autoritaria di stampo neofascista, seppur priva degli aspetti araldici che tanto piacciono ai nipotini del Duce italico, che però vengono ampiamente compensati da un instancabile ricorso a citazioni, più o meno rimaneggiate, del defunto dittatore predappiano.

Un grande vecchio liberale e facondo produttore di massime ed aforismi, Winston Churchill, che pure aveva della democrazia una visione intrinsecamente classista, essendo egli figlio della nobiltà britannica, sosteneva che:
La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.
La democrazia non è solo l'ideale di un sacrosanto diritto di espressione per tutti, ma anche un sistema di governo basato su un accorto schema di bilanciamento di poteri ed istituzioni che devono rimanere indipendenti ed autonomi, per garantire pluralismo, rappresentanza di tutte le istanze, nei limiti della loro consistenza tra gli elettori, garantendo, in un meccanismo spesso molto complesso, l'esistenza di pesi e contrappesi atti ad evitare l'insorgenza di arbitrio e parzialità.


Nel nostro ordinamento la Costituzione stabilisce con grande efficacia i contorni operativi e normativi di quello schema di bilanciamento, e se pare abbia qualche pecca io credo che la cosa vada ricondotta ai limiti di chi la deve interpretare ed attuare, limiti che, purtroppo, sono sempre più frequentemente ascrivibili a consapevole malizia, e non a semplice incapacità.


Non è un sistema infallibile, e neanche particolarmente efficiente, ma a conti fatti e nel lungo periodo si è rivelato tra i migliori.
Qualcuno si ostina a sostenere che i regimi dittatoriali, o perlomeno autoritari, siano maggiormente efficienti, dato che eliminano sul nascere le complessità che scaturiscono una eccessiva varietà di opinioni, con l'importante implicazione che ne basti una.


Sembrerebbe banale sostenere che semplificando, con effetti invariabilmente letali, l'azione di governo grazie alla rimozione dell'opposizione si ottenga un grado superiore di efficienza e focalizzazione, ma il bilancio deve essere sempre stilato sul lungo periodo, ed i regimi autoritari finiscono sempre con devastanti implosioni precedute da progressiva sclerotizzazione degli aspetti vitali della società e della nazione che ne patisce il predominio.


Che questo avvenga perché nel tentativo di superare le contraddizioni interne ci si risolva ad aggredire un nemico esterno convenientemente identificato - Terzo Reich e Giunta Argentina, per esempio - o che si muoia d'inedia dopo una lunghissima malattia - Franco e Salazar, ma anche molti regimi del socialismo reale, tra cui quello nordcoreano, vivo per mero accanimento terapeutico - non fa molta differenza. La maggiore efficienza di dittature e regimi autoritari è una panzana screditata da verdetti storici che si susseguono con impressionante invariabilità, e solo la malafede di alcuni, l'ignoranza di altri e la corta memoria di chi ha orizzonti temporali minuscoli permette che continui a perpetuarsi.


Nel nostro paese, la democrazia ha sempre dovuto combattere contro nemici potenti ed insidiosi, che ne pregiudicavano l'applicazione, e sottostare a condizioni oggettive geopolitiche fortemente invalidanti – confronto est/ovest in quanto marca di confine dell'impero di fatto nordamericano – e da ultimo subire la rivoluzione iperliberista globale, partita dalla crisi economica di dieci anni fa, e agita attraverso lo snaturamento e svuotamento delle istanze democratiche vitali e maggiormente rappresentative: marginalizzazione del potere elettivamente identificato, neutralizzazione dei corpi intermedi, intossicazione della libera informazione e preminenza delle ragioni di settori ristretti della società.

La democrazia, sempre cagionevole, è ora gravemente ammalata, e il morbo è globale, cosa che dovrebbe scuoterci da un certo ridicolo provincialismo e dalla solita contemplazione del proprio ombelico.

Stiamo correndo rischi tremendi, perché abbiamo perso una componente fondamentale dell'equilibrio politico e sociale, ovvero una visione autenticamente antagonista rispetto a quella variamente declinata da chi gestisce il potere e chi sostiene di opporvisi, ma solo per imporre la propria lettura di un identico paradigma.


Se, con una certa frequenza, emergono atteggiamenti critici verso le contraddizioni del sistema democratico, ciò avviene per la scarsa pazienza, e superficialità, di alcuni, per l'oggettivo stato di disagio che coglie chi viene colpito dagli effetti di una crisi e non può permettersi un distacco da un'emergenza devastante, e per l'atteggiamento mentale di un canagliume politico e sociologico che è abituato ad anteporre le proprie visioni ed aspettative a tutto.

La continua rivendicazione dei due vicepremier gialloverdi di rappresentare la volontà del popolo italiano, peraltro priva di riscontro fattuale dato che son ben lontani dal rappresentarlo nella misura che si attribuiscono, denota chiaramente una strutturale insofferenza per le complicazioni democratiche ed una naturale consonanza con modelli autoritari e presuntamente semplificati.

Tutti i provvedimenti e le innovazioni promesse durante una campagna elettorale che non ha mai conosciuto soste, da ancor prima delle politiche del 2013 e che perdura tuttora, si stanno rivelando inattuabili, quando non incostituzionali, o attuabili con conseguenze devastanti sul medio e lungo periodo.


Ma non è solo questo, trattandosi infatti del prodotto di una visione propagandistica, ottimizzata per il semplice successo elettorale ed elaborata da menti semplici e per menti semplici, o per conquistare il favore di individui in forte affanno, chi le ha pensate non si è mai posto il problema della loro implementazione pratica, della loro sostenibilità sotto l'aspetto operativo.

Il risultato è che nel momento della loro formalizzazione emergono contraddizioni, incongruenze e impossibilità tecniche di ogni tipo, cui si pretende di rimediare con genialate da creativi di terza categoria in pieno brainstorming etilico, indulgendo nell'antico proverbio che parla di toppe peggiori del buco.

Noi non siamo ancora in un regime autoritario, ma stiamo ingegnandoci per cascarvici dentro. Nel frattempo abbiamo anticipato l'abito mentale di devastante inefficienza gestionale che li caratterizza.




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