Recentemente si è
consumato un mio piccolo dramma personale. Mi ero coinvolto, con
entusiasmo, in un movimento che si proponeva di promuovere la nascita
e lo sviluppo di una sinistra che fosse radicalmente lontana dai vizi
che l'hanno sempre condannata al fallimento per asfissia. Niente
verticismo, dunque, e linea e programma scaturenti da una coralità
d'intervento dei partecipanti, peraltro provvisorie e da sottoporre
al vaglio di un elettorato che, potenzialmente, avrebbe potuto anche
modificarle cospicuamente.
Modello di riferimento, ma
non necessariamente impegnativo, avrebbe dovuto essere Podemos, dove
un nucleo di "specialisti" di scienze sociali e di
attivisti politici hanno messo a disposizione di una base, magari
priva di pregresse esperienze politiche, organizzazione, metodi di
analisi e "consulenza" tecnica, ma per il resto con
l'esplicito proposito di non eterodirigere il processo di
elaborazione dei contenuti e delle finalità.
La possibilità di ovviare
a quelle che io ho sempre ritenuto le "tare" della
sinistra, verticismo, come torno a rimarcare, intolleranza
ideologica, pratica egemonica e presunzione di capacità dirigenziale
tutta da verificare, mi affascinarono e decisi di dare il mio piccolo
contributo, convinto che, tra la mutazione neoliberale del PD e
l'alternativa populista, e a mio vedere mendace, di M5S l'unica
strada praticabile fosse la costruzione di una sinistra nuova e
differente, in grado anche di accogliere il sentiment delle
generazioni di giovani che si affacciano alla vita con un vissuto
differente rispetto al mio, ultrasessantenne figlio di quella
straordinaria esperienza che fu il '68.
Tra questi giovani e
quelli come me c'è una sorta di vuoto esperienziale. Io sono il
risultato di una continuità con le esperienze di chi mi ha
preceduto. I termini di confronto dei quali mi avvalgo sono la mia
elaborazione di un continuum fino a quel momento fluito senza vuoti o
cesure.
I giovani coi quali mi confronto, invece, il più delle
volte emergono da un'interruzione di quel processo, indubbiamente
propiziato dallo smarrimento della via da parte di una sinistra
moralmente subalterna, in questo periodo storico, ad un liberismo
trionfante.
Maneggiamo i medesimi
elementi, ma vi affidiamo significati differenti e spuntano quelle
bizzarre asserzioni, in passato strumentali ad una destra che
rifiutava di fare i conti con il proprio passato, come il concetto,
straniante, che destra e sinistra siano categorie sorpassate.
Per quello che posso
cogliere io, la presa di distanza dei giovani avviene principalmente
sui connotati politici di un contendere che loro ritengono
responsabile dell'attuale stato di cose, ragione per la quale se ne
tengono alla larga e optano per un'assenza programmatica oppure
concedono il loro favore a proposte antipolitiche, come quella di
M5S.
Ritengo fondamentale
promuovere un dibattito su questa mistificazione del presunto
superamento dei concetti di destra e sinistra, perché la dimensione
politica di quella contrapposizione non risiede nelle ideologie, che
sono meri strumenti, ma nella dimensione sociale e antropologica.
È la tua visione della
società, il tuo concetto di solidarietà, la tua idea di cosa è
giusto e di cosa è sbagliato a qualificare su quale versante ti
disponi, di diritto prima ancora che per scelta.
Questo, tra l'altro,
comporta il superamento di uno steccato ideologico che affonda le sue
radici nella nostra condizione di stato subalterno ad un potere
confessionale effettivo che ingessa il dibattito.
Possiamo
veramente non includere nella sinistra quelle componenti cattoliche
che del riscatto degli ultimi della terra, declinato in una sfera
sociale, hanno fatto la loro ragion d'essere? Possiamo isolare o
mettere in quarantena i focolarini per esempio? O la Caritas? Ci
siamo già scordati di Don Gallo?
È ovvio che nella pratica
emergono frizioni e contraddizioni, in particolare sulle cosiddette
questioni "di coscienza", ma queste avrebbero una forte
probabilità di composizione, nel momento in cui si dovesse riuscire
a superare le polarizzazioni imposte dalle componenti più
intolleranti delle due parti.
Insomma, a mio avviso, è
fondamentale superare quella dimensione elitaria che rende la
"cooptazione", termine che non scelgo a caso, nel sacro
recinto della sinistra non molto dissimile dai criteri schizzinosi e
intimamente classisti che informano l'accettazione in un esclusivo
country club.
Questo significa accettare
indiscriminatamente tutti? Certo che no, altrimenti faremmo il paio
con le primarie che consacrarono Renzi, innalzato sugli scudi dalle
truppe cammellate del centrodestra, indebitamente infilatesi nel
processo di identificazione della dirigenza di un partito
teoricamente di centrosinistra. Ma bisogna fare lo sforzo di
comprendere che i connotati antropologici di riferimento sono
cambiati, e anche se gli strumenti classisti di coercizione sono
rimasti sostanzialmente identici è cambiato il quadro operativo.
Noi "anziani"
tendiamo naturalmente a fornire risposte che sono maturate negli anni
'50, '60 e '70, ma il quadro sociale, grazie alla crisi, alla
distruzione dei diritti faticosamente costruiti ed alle cosiddette
riforme renziane è riconducibile maggiormente ad una fase molto
precedente, direi agli anni '10 del secolo scorso, e speriamo che non
si arrivi a Bava Beccaris.
Questi giovani non hanno
prospettive, campano in genere grazie a redditi familiari che non
dureranno per sempre e, fenomeno sottovalutato, non hanno mai
maturato una risposta critica alle condizioni che patiscono, a
differenza di chi li ha preceduti.
Non basta questo a
convincerci che vanno ascoltati senza ingombranti paternalismi?
Non
basta la constatazione che questo mondo, questa situazione, che a noi
appare aliena, è in definitiva la "loro" realtà, l'unica
che conoscono, che li accompagnerà nella loro esistenza, quella cui
si devono adattare e che dunque a loro sta il compito di creare gli
appositi e peculiari metodi di interazione?
Eppure ciò non avviene e,
anzi, troppi tra quelli che si coinvolgono in esperimenti di
rinascita divengono i portatori dell'esigenza, mortifera, di
costituirsi in una sorta di Sant'Uffizio per la "purezza
ideologica" e sfoderano presto la nota incapacità di gestire
un confronto dialettico critico. Se la loro visione viene
contestata, o anche solo discussa, si lanciano immediatamente nel
confezionamento di pagelle infamanti o, se contestati nel metodo, si
rifugiano in giudizi personali non pertinenti (hai un pessimo
carattere).
Tutti hanno opinioni
specifiche ed è lecito averle care, ma se brighi per omologare
l'universo mondo al tuo sentire non fai altro che chiudere al
confronto per non fare la fatica di metterti in discussione.
Questo a livello
personale. Se la pratica viene invece trasportata a livello di
strategia politica allora siamo in presenza della ben nota, e
disastrosa, pratica egemonica, quella, per dire, che consegnò la
Spagna a Franco, perché parve più importante far fuori gli
anarchici che i nazionalisti, quella che, a un certo punto, mi
convinse ad abbandonare la militanza attiva, visto che passavo più
tempo ad accapigliarmi con Avanguardia Operaia che con i fascisti.
Aderendo a quel gruppo
pensai, sperai, di potermi lasciare alle spalle questi meccanismi e,
per un po', potei cullarmi nella convinzione che fosse maturata una
robusta risposta alla loro nefasta influenza. Ma sulla distanza vidi
apparire all'orizzonte alcuni personaggi, estremamente assertivi e
non scevri dal rivendicare una certa superiorità intellettuale e
sapienziale, che in breve si arrogarono il diritto di contrabbandare
le loro convinzioni quali linea politica del gruppo, il che è
abbastanza strano vista la fase d'impianto dell'iniziativa, il
riferimento a Podemos (in proposito venni informato che era un mio
"trip", cosa falsa peraltro) e la totale assenza di un
circuito formale e condiviso di definizione di programma e linea,
tuttora in fase di definizione, checché se ne dica.
E fin qui potrei
accontentarmi di definire criticamente quei personaggi, ma il fatto è
che una volta acceso il dibattito, e sperimentata la solita panoplia
di repliche assertive e indimostrate, nonché il solito ricorso a
giudizi personali avvilenti (se fossi stato una donna, probabilmente,
mi sarei sentito chiedere se avevo "le mie cose"), ho
rilevato che quegli atteggiamenti non erano sgraditi ad alcuni dei
più importanti amministratori del gruppo (che al momento si
articola in una dimensione social), che intervennero avallando un presunto, e molto opportuno, personalismo narcisistico da parte mia, e allora ho capito due cose:
la nefasta pratica
egemonica stava prendendo corpo e consistenza;
le mie
considerazioni, evidentemente eretiche, erano già trattate quale
espressione di una "cosca perdente", collusa,
ideologicamente sospetta e non conforme a qualcosa che era stata
proditoriamente eletta a riferimento programmatico.
Avrei potuto rimanere e
lottare per le mie convinzioni, ma sono stanco di queste guerre. Ne
ho viste a decine e so a quali abissi di impresentabilità possono
arrivare. D'altra parte non mi andava neanche di promuovere
un'opposizione che avrebbe potuto avere, se di successo, solo un
esito scissionista. Sai che novità, e sai che comprovata efficacia. Non intendo distruggere nulla, ma neanche collaborare, senza diritto di replica, a qualcosa che reputo sbagliato.
Dunque me ne sono andato e
la cosa mi ha molto depresso, non perché non l'ho avuta vinta, ma
perché, una volta di più, si è persa una buona occasione.
Quell'esperimento, ne sono certo, ha in sé le stimmate del
fallimento ed è un peccato, soprattutto per quei giovani che
affrontano la vita isolati e separati, senza la coscienza di
costituire un gruppo sociale in grado di farsi sentire.
Perché questa lunga
giaculatoria? Perché sentivo il bisogno di mettere nero su bianco il
mio pensiero. Non ho fatto nomi e non ho identificato il gruppo e
solo chi mi è più vicino, o ha assistito allo scontro, può
contestualizzare la cosa. Non mi interessa sabotare e neanche
vendicarmi, mi interessa solo esprimere dei concetti che non so
neanche se verranno letti, ma che potrebbero fornire spunti, anche
critici, a chi volesse leggerli.
So già che potranno anche
suscitare reazioni alquanto negative, e non solo nei miei oppositori
in quel gruppo, perché ho sostenuto cose che, nel panorama mentale
di una "certa" sinistra, sono sospette, sbagliate o, per
alcuni, un vero e proprio tradimento che mi potrebbe guadagnare
l'etichetta, non molto esclusiva, di "fascista", ma non mi
interessa.
Sono sul viale del
tramonto e l'ultima scintilla si è appena spenta. Non concorro a
premi simpatia e sono convinto che il riscatto passa solo dal
coraggio di una radicale riscrittura delle strategie.
Se tutte le tue ricette
hanno, ripetutamente, fallito non è l'esperimento che è stato
condotto male, ma è la teoria che deve essere riesaminata.
Questa è
l'essenza del metodo scientifico, e dato che il marxismo-leninismo si
fregiava della qualità di scientifico, ce n'è abbastanza da indurre
a rivedere alcuni elementi.