venerdì 28 agosto 2015

Presto, che è tardi!

Noto, nella macedonia mista del popolo di sinistra una certa propensione a "fare alla svelta", a creare con urgenza un'alternativa di sinistra (ma non sarà piuttosto ricreare la sinistra?) per sconfiggere Renzi, ridimensionare Salvini e togliersi di torno M5S, nientemeno.  Ci abbiamo messo anni per autodistruggerci così radicalmente, crederemo mica di rimettere in piedi tutto in poco tempo vero?

E con cosa lo dovremmo fare, di grazia? Con transfughi a vario titolo di PD o rimasugli di falliti tentativi di "superamento a sinistra"? Con gente che, ben lontana dall'assumersi le proprie responsabilità nell'ignominioso harakiri di quello che fu il più potente partito comunista d'opposizione al mondo, si ricicla senza però abbandonare il viziaccio brutto di concionare dalla cima della piramide?

E a chi vorrebbero rivolgersi questi "portatori di speranza"? Allo stesso "parco buoi" di cui si sono ricordati puntualmente in epoca elettorale e che poi, altrettanto puntualmente, veniva riposto nell'apposita custodia? Gli stessi impiegati, operai, studenti, cassaintegrati, disoccupati, le stesse donne le cui aspirazioni ed aspettative, i cui diritti costituzionali venivano calpestati per l'assoluta inanità politica che quei dirigenti sapevano dispiegare?

Qualcuno ha ricordato a questi arrembanti "revanscisti" che il primo partito d'Italia è quello dell'astensione? Banale vero? Eppure pare che la cosa venga spesso dimenticata. O vogliamo parlare di quelli che si sono rivolti a M5S? Con cosa li si schioda quelli?

Il fatto è che non si deve solo ricostruire da zero una rappresentanza politica, ma anche ricordarsi, o per certuni capire, che quella rappresentanza è uno strumento che un blocco sociale si dà. Se il blocco non c'è, non c'è neanche la rappresentanza. Ma questo blocco sociale è disperso, esiste ma non ha coscienza di sé ed ha una sola certezza, quella di essere stato tradito.

L'unica cosa che abbonda sono i dirigenti senza "casa" e smaniosi di tornare sulla piazza. 

Un volta il mio medico curante mi disse che il fegato, come molti organi interni, sopporta molti maltrattamenti prima di ammalarsi e che così come ci mette molto per sviluppare una patologia, ci mette assai per poi guarire, e che dunque una completa remissione poteva aver luogo solo dopo un percorso che non prevede scorciatoie. La sinistra italiana è quel fegato, ed è stato trattato malissimo.
O si comprende questo, oppure si rischia semplicemente di ripetere le esperienze fallimentari di altre inutili scissioni e aggregazioni verticistiche, completamente slegate dalla base. Eppure dovremmo averla capita che è così facendo che abbiamo disgustato un sacco di gente.

L'iniziativa di Landini, che si basa su reti già esistenti, funzionanti e partecipate, mi sembra la giusta strategia, ma ricostruire una base, pensionare leaderini e capetti e formare una nuova classe dirigente, espressione della militanza e non di comitati centrali più o meno autoreferenziali non è cosa che fai in pochi trimestri.

Dunque zaino in spalla e passi lunghi e ben distesi, che la strada da fare è molta.

sabato 22 agosto 2015

Me ne vado, e la colpa è tua.

Dopo aver letto questo articolo de Linkiesta mi ritrovo a fare alcune considerazioni che, originatesi tempo addietro, prendono sempre più consistenza e definizione.
Mi costano più di un epiteto quando le esterno, ma non importa. Le esterno con lo spirito di un padre che parla ai figli e che dunque mette nel conto di essere mandato brutalmente a quel paese, come avviene di norma ai padri.

Parto dal presupposto che ciascuno ha il diritto di decidere che fare della propria vita e convengo, fin da subito, che tali scelte dipendono sia da inclinazioni personali che da condizioni oggettive. Dunque non mi sogno minimamente di negare che lo scenario che si offre alle generazioni più giovani è desolante e assai scoraggiante.

Date le condizioni attuali non ci vuole molto per giudicare l'abbandono del proprio paese un'opzione desiderabile a dispetto della sua praticabilità, talvolta anche molto impegnativa, e giustificata dalle dimensioni e sussistenza di una prospettiva che qui da noi è inesistente o asfittica, al netto di protezioni familiari o di rendite di posizione.

Non intendo dunque addebitare a questi giovani alcuna patente di indifferenza, né insultarli caricandoli di una presunta incapacità di sopportazione, dato che emigrare non è certo una passeggiata.
Detto questo rimane il fatto che qualsiasi scelta comporta responsabilità oggettive le quali, pur sgradevoli, devono essere assunte.

La cifra media dell'atteggiamento di questi giovani è l'individualismo, ovvero la non prospettata, e prospettabile, possibilità di far divenire le proprie aspirazioni materia di una rivendicazione comune, sociale prima ancora che politica.
Trovo che questa visione costituisca la caratteristica più importante delle generazioni nate dagli anni '70 in poi, le prime dopo il II conflitto mondiale di cui posso dire che nessuna ha mai pensato di picchiare i pugni sul tavolo e rivendicare, coralmente e attivamente, le proprie aspirazioni.

La dimensione individuale comporta una bassissima capacità contrattuale dalla quale scaturisce, insieme alla dinamica della decadenza del nostro paese, l'attuale mancanza di prospettive vitali
I giovani hanno la capacità di affrontare i disagi di un'emigrazione e dunque, potenzialmente, avrebbero potuto affrontare, anzi originare, una stagione di lotta (come fecero i loro padri e nonni), ma non lo fanno perché di quella possibilità non tengono alcun conto, essendo fuori dall'orizzonte delle scelte opzionabili.

Alcuni di loro obiettano che se le lotte che hanno avuto luogo in passato hanno potuto poi portare allo sfascio attuale non vale la pena di intraprenderle, ma si tratta di un'obiezione errata e, non di rado, tartufesca.
Le condizioni rivendicate non si conseguono una volta per tutte. Vanno mantenute, accudite e sorvegliate. Quando ciò non avviene si verificano arretramenti, come la vicenda del job act ci dimostra.

Nell'opinione pubblica sta montando una critica sempre più definita nei confronti della tendenza dei giovani (laddove questo termine si può estendere funzionalmente ai quarantenni) all'espatrio e capisco come questo risulti loro poco gradito, ma se è certo criticabile l'aspetto inutilmente moralistico di certi rimproveri (scappate, avete rinunciato ed altre semplificazioni spesso ingenerose) rimane sempre il fatto che, come dicevo sopra, ogni scelta comporta conseguenze e responsabilità. Puoi non gradirle, puoi negarle, ma ci sono.

Questi giovani se ne vanno perché soffrono per le condizioni scoraggianti che accolgono il loro ingresso nella vita adulta, ma non sono solo i loro padri a portare la responsabilità dello sfascio. Tale responsabilità è in capo anche a loro ed alla loro passività.
Dunque ciascuno può fare della sua vita ciò che vuole, è un suo inalienabile diritto, ma questo non giustifica la pretesa di non avere alcuna parte in ciò che accade.

Questi giovani, andandosene e rinunciando a esercitare le proprie rivendicazioni, impoveriscono il paese, e se hanno preso atto di una sconfitta dovrebbero prendersi quantomeno la briga di riconoscere il loro ruolo in questo non per macerarsi in incongrui sensi di colpa, ma per nudo e crudo realismo, un elemento fondamentale nell'armamentario critico che serve ad affrontare la vita.

Troverei anche sommamente preferibile che la smettessero di consolarsi dicendo che potrebbero aiutare meglio l'Italia “da fuori”. Queste sono “cazzate”, per usare un termine che renda semanticamente meglio la mia scarsa considerazione. Sono il ditino dietro al quale ci si nasconde per darsi una giustificazione presuntamente oggettiva.

E' la tua vita, ne fai ciò che vuoi e facendolo dispieghi una serie di conseguenze che vanno oltre la tua persona. Non devi fartene necessariamente carico, ma non puoi fingere che non esistano. E' una questione di onestà mentale e fino a quando non la elaborerai non avrai capito alcune cose fondamentali.


mercoledì 19 agosto 2015

Una luce si affievolisce


Grande rilievo sta avendo la notizia che la CGIL sta subendo un calo preoccupante, 13%, tra gli iscritti. In proposito ho sentito ogni tipo di valutazione, tra cui alcune abbastanza discutibili o non sufficientemente sviluppate.


Il Tg de La7, per esempio, addebita la responsabilità della flessione all'eccessivo(sic!) contrasto al job act.  Evidentemente si pensa che una fetta consistente di iscritti veda nella nuova disciplina del lavoro una effettiva possibilità  di soluzione ai problemi occupazionali, a dispetto della precarietà  istituzionalizzata e dello svuotamento del potere contrattuale dei lavoratori. Mah!!!

Pare poi che La Repubblica, come Huffingtonpost golosamente riporta, si sia prodotta in una "perla" come la seguente:
"Il primo grande male che affligge non solo la Cgil, ma il sindacato in generale, è lo strapotere delle categorie dei pensionati. I numeri della Confederazione lo confermano: al 1 luglio gli iscritti attivi, cioè i lavoratori, sono 2.185.099. A fronte di 2.644.835 di tesserati allo Spi (...) Ma il bacino finora sicuro dei pensionati si sta assottigliando pure quello: nel giugno 2013 i tesserati over erano 2.728.376, e qui - dicono dalla Cgil - c'entrerebbe molto la riforma Fornero che ha rimandato la pensione a centinaia di migliaia di persone".

Così,  di primo acchito mi verrebbe da pensare che i sindacati di categoria dei pensionati hanno molti tesserati principalmente per due ragioni:
  1. i pensionati provengono in grandissima parte da gente che ha vissuto un'intera vita conoscendo il valore della coesione e la necessità  di presentarsi in un fronte unito nei confronti della controparte.  Sarebbe incongruo se, proprio alla fine della loro vita attiva, si rimangiassero un sistema di valori nel quale hanno sempre creduto;
  2. i pensionati, al contrario dei lavoratori attivi del XXI secolo non corrono il rischio di essere espulsi da un impiego, come è successo a Termini Imerese, per il solo fatto di avere una tessera sindacale e ritenere con ciò di avere dei diritti, e dunque quell'appartenenza se la possono permettere. 
Quanto poi questa "mafia dei pensionati" possa prevalere nelle scelte programmatiche del sindacato non mi è chiaro, dato che tutto sommato su di loro le conseguenze del job act, lotta strategica appena rimproverata alla CGIL, non hanno poi molta rilevanza, per dirne una.

Io ho avuto piccoli incarichi sindacali e non starò certo a negare che il sindacato possa avere pecche, contraddizioni ed errori sui quali dovrebbe prodursi in analisi che, al momento, latitano, ma non posso fare a meno di pensare che la CGIL sia l'organizzazione che con più costanza e maggiore coerenza ha lottato per la difesa dei lavoratori, con un picco di eccellenza, come si usa dire, nella FIOM.  Dunque non sono molto stupito del fatto che sia scattata una ulteriore fase della strategia di contrasto al suo operato e che una stampa cialtrona ed asservita si presti a questa guerriglia fiancheggiatrice.

Sta di fatto che l'azione di un sindacato non può prescindere dalla disponibilità al coinvolgimento nelle iniziative di lotta da parte dei lavoratori, e proprio qui sta il punto.
Fenomeni di non coinvolgimento ci sono sempre stati e, pur incidendo sull'azione di rivendicazione, non sono mai stati in grado di paralizzare le iniziative. Magari, se la categoria non era molto combattiva, come quella dei bancari che conosco bene, il livello medio della richiesta ne usciva impoverito, ma non al punto da divenire tristemente subalterni, come accade ora.

Al fenomeno tradizionale del lavoratore che non si iscrive, non sciopera e, magari, non presenzia alle assemblee, in omaggio al principio che "è il chiodo che sporge quello che viene battuto", salvo poi innalzare alti lai e criticare il sindacato per le aspettative deluse si è aggiunta la fattispecie di chi non si coinvolge non perché è troppo furbo, ma perché  corre dei rischi seri ed effettivi.

Qui sta uno dgli errori strategici del sindacato: non aver preso atto che le condizioni operative stavano drammaticamente cambiando, in peggio naturalmente.
Come dico spesso, quando ero un ragazzino, passando davanti alla TIBB al cambio turno, la conversazione si affievoliva, coperta dal fruscio di centinaia e centinaia di bicilette di operai che si avvicendavano.   

Tutti quegli operai, tutti in tuta blu, tutti con la borsa di finta pelle che conteneva la "schisceta", avevano in tasca la tessera del sindacato, e non di rado quella del PCI, erano assoggettati al medesimo contratto di lavoro e si muovevano compatti, in difesa delle proprie rivendicazioni e dei compagni di lavoro.  Un attacco della direzione ad un collega o a un dirigente sindacale comportava dei prezzi che l'azienda valutava attentamente, per poi magari rinunciare.

Oggi passando davanti ad una delle poche fabbriche rimaste vedi molti meno operai e alcuni di questi hanno in tasca la tessera di un partito, ma si tratta della Lega, sono assoggettati a tre, quattro o cinque contratti diffenti, mentre altri sono incatenati ad una delle numerose tipologie di precariato dal nome esotico.  Pochissimi hanno una tessera sindacale, mentre il rischio di un "trattamento Marchionne" è reale ed incombente.

Il sindacato a questa gente si è approcciato con modalità  che andavano benissimo negli anni 70/80, ma che ora sono anacronistiche.   Se poi a questo aggiungiamo che spesso all'interno delle federazioni si scatenavano lotte politiche di prevalenza di linea e che una delle sigle confederali, per motivi di gretta e miope ricerca dell'egemonia, ha cominciato a proporsi quale opzione "ragionevole" e dialogante, in alternativa ad una CGIL "troppo rigida", ecco che il lavoratore messo in un angolo non si è  sentito più  rappresentato o abbastanza forte da potersi permettere un'appartenenza sindacale.

Mi si obietterà che in tempi nei quali lo Statuto dei Lavoratori era ancora solo un sogno ardito, le condizioni nei posti di lavoro non erano meno difficili, ed è vero, ma a quei tempi il sindacato sapeva porsi quale partner affidabile, anche perché non orfano, come è ora, di una rappresentanza politica.    

La pratica del picchettaggio, per esempio, spesso dipinta quale prevaricazione antidemocratica non era altro che la costruzione, da parte del sindacato, di una oggettiva protezione del lavoratore che risultava, formalmente, assente per una ragione indipendente dalla sua volontà.   Mezzucci? Mah, quando sei Davide e ti confronti con Golia devi supplire in qualche modo alla potenza del tuo antagonista.

La CGIL dunque non è esente da critiche ed è responsabile del suo calo di iscritti, anche se non quanto la lucida controrivoluzione neoliberista che ci percuote, ma è  ancora abbastanza potente, coerente e pericolosa da meritarsi un attacco concentrico.
Se fosse veramente la "rovina dell'Italia" come recita uno vecchio slogan beceramente qualunquista, non meriterebbe tutte queste attenzioni.


martedì 11 agosto 2015

Ma perché questi barboni si ostinano a bussare alla mia porta?

Sempre più spesso, sui “social”, divampano le discussioni sul fenomeno dei profughi, ma spesso non vertono tanto sulla genesi del problema, come si origina e perché prende i connotati che abbiamo sotto gli occhi. Ciò avviene in quanto molti preferiscono ragionare, o “sragionare”, sulle conseguenze che quell'afflusso così consistente e caotico può avere sulle nostre vite.

Non dico che sia sbagliato farlo, anzi, solo che non basta desiderare che una cosa non avvenga per isolarsene.
E non credo neanche che si possa arginare il fenomeno in tempi brevi, dato che è determinato dal rapporto di sfruttamento tra occidente industrializzato e sud del mondo, il cui trattamento richiederebbe un riassetto profondo, generale e antiliberista del nostro modello economico.

Quella gente scappa da paesi dilaniati dalla guerra o dalla fame. Sul perché quei paesi siano in preda a confilitti o siano aridi, desolati e con i campi incolti dovremmo, in quanto occidente, farci molte domande e raccogliere il coraggio per accettare le risposte, cosa che ci guardiamo bene dal fare.

Anche i rimedi “sintomatici” proposti dalle forze politiche xenofobe, praticabili solo a prezzo di veri e propri crimini contro l'umanità, anche se appaltati a terzi, non sembrano adeguati a sostenere l'urto di un fenomeno di proporzioni bibliche.

Bisogna dire oltretutto che spesso si sovrappongono due aspetti differenti confondendo, ad arte, due fattispecie ben distinte: gli immigrati, regolari o meno, ma relativamente integrati, che lavorano ed hanno casa, famiglia ed un ruolo di qualche tipo nella società che li accoglie, e i profughi ammucchiati sulle carrette del mare che costituiscono una turbativa per la consistenza e tumultuosità del loro arrivo.

I primi, quelli variamente integrati, diventano un problema solo in funzione del tipo di politica che pratica il paese ospitante. Più l'immigrato è ghettizzato e fatto oggetto di pulsioni xenofobe, più il conflitto sociale si infiamma e il fossato culturale si divarica.
L'incomprensione può diventare la cifra di un confronto sgradevole, mentre i gruppi etnici, importati e autoctoni indifferentemente, coltivano gli aspetti identitari delle rispettive culture, amplificando le differenze piuttosto che valorizzando i punti di contatto e le reciproche convenienze.

Io sono per due sesti francese ed ho molti parenti che vivono in Francia, con un ampio spettro di posizioni politiche e ideologiche, che vanno dal Front Nationale al PCF.
La Francia, fino a pochi decenni fa era un impero e dunque nei suoi confini ha diverse comunità provenienti dai territori oltremare e dalle vecchie colonie, ma non tutti i gruppi etnici sono trattati, e visti, allo stesso modo. Le due tipologie principali sono il gruppo arabo e quello dei paesi dell'Africa sub-sahariana. Per dirla con le parole di mia zia Jeanne, che dio l'abbia in gloria, “Les noirs sont gentils et honnêtes, mais les Arabes sont perfides et mauvais”. Non credo vi sia bisogno di tradurre vero?

Mia zia era gollista e suo fratello Henry, comunista, rideva e sosteneva che i francesi sono incazzati con gli arabi perché in Algeria questi gli hanno fatto sudare le proverbiali sette camicie, causando loro la seconda sconfitta in pochi anni, ma molto più dolorosa di quella annamita consumatasi pochi anni prima, mentre si permettono di essere paternalisticamente ben disposti verso chadiani, senegalesi ed altri popoli di colore perché questi non hanno mai ferito il loro orgoglio.
Le cose sono un po' più complicate di così, ma rimane il fatto che se la Francia ha un problema con gli immigrati, anche se regolari, è con gli arabi e non certo coi camerunensi. Un caso? Direi di no.

Credo che si potrebbe discutere a lungo, e senza molto costrutto, sul fatto che gli arabi siano un pericolo per l'ideologia revanscista musulmana di cui “alcuni”, e solo alcuni, sono portatori o se quell'ideologia sia il portato, la conseguenza e la reazione ad una lunga storia di sfruttamento e colonizzazione, tuttora perseguita anche se non nelle modalità tradizionali.

Con buona pace della Lega, e a dispetto delle falsità che questa propala, l'Italia, che non ha una presenza di stranieri sui livelli francesi, tedeschi e britannici, non ha problemi realmente gravi con le comunità che si sono installate sul territorio, al di fuori di quelle “pompate” da Salvini e soci, e anzi si può ben dire che se il valore del lavoro espresso da quelle genti e la raccolta previdenziale e fiscale che ne derivano venissero a mancare avremmo più di un motivo per lamentarcene.

Il fatto però è che quelli di cui si dibatte ora nelle discussioni su FB e gli altri “social” non sono stranieri integrati, pervenuti in scaglioni gestibili, e con anche solo uno straccio di prospettiva. No, si tratta di gente che fugge da qualcosa di tanto scoraggiante da rendere un viaggio difficile, pericoloso e la certezza di taglieggiamenti, rapine e oltraggi alla persona preferibili alla situazione da cui scappano.
Questo dovrebbe farci capire che si tratta di un flusso virtualmente incontenibile, anche a fronte di provvedimenti drastici e perfino inumani.

Negli anni scorsi la Lega si ascrisse il merito di aver contenuto il flusso di immigrati, e ha opportunamente sorvolato sul fatto che l'emergenza giudiziaria lamentata provenisse in primo luogo dalla Bossi-Fini, che definiva assiomaticamente illegali, e dunque malfattori, gli immigrati privi di permesso. Un caratteristica del problema lucidamente perseguita per dipingere lo straniero quale delinquente “naturale”.

Quel merito comunque proveniva da due fattori: i punti di crisi erano minori e meno incandescenti e la diminuzione degli arrivi si doveva principalmente alla fattiva, e costosissima, collaborazione con un dittatore psicopatico e sanguinario, Gheddafi, che fermava i profughi in terra di Libia con metodi e spietatezza che opportunamente non abbiamo mai avuto interesse ad indagare.

Checché ne dicano Cameron, Farage, Hollande e, in sedicesimo e molto più modestamente, i nostri Salvini e Calderoli, l'ondata non è contenibile e dunque pretendere che “siano cazzi” esclusivamente dei paesi in prima linea è una castroneria ipocrita e inutile, è come lamentarsi che, piovendo, ci si bagna.
La stragrande maggioranza degli arrivi è di gente a cui di rimanere in Italia o Spagna o Grecia non interessa nulla. E' ovvio che i paesi che costituiscono il target di quei disgraziati non possono assorbire quei volumi in quei tempi, ma dovrebbe essere ovvio che anche chi se li vede arrivare sulle spiagge ha i suoi bravi problemi.

L'Italia li gestisce male, si dice. Ok, ma questo non incide più di tanto sulla sostanza. Identificati o meno, detenuti, perché questo è il giusto termine, o meno in qualche CIE, ciò non toglie il fatto che recuperarli, curarli, alloggiarli e sfamarli costa un bel pacco di soldi, che non sempre vengono spesi bene, e fino a prova contraria sono proprio i paesi che vengono investiti per primi quelli con le finanze dissestate e sotto l'arcigna e occhiuta sorveglianza dei tutori dell'equilibrio finanziario europeo.
Non possiamo aggirare il patto di stabilità per fare strade e scuole, perché dovremmo poterlo fare per gestire i profughi? E infatti non lo facciamo. Dovremmo tagliare ancor di più su sanità e istruzione? Ah già, porca pupazza, lo stiamo già facendo.

E dunque i bravi, solerti ed affidabili francesi e britannici hanno girato la testa dall'altra parte quando il problema sembrava ben lontano da casa loro ed hanno decretato un bel “fatti vostri, arrangiatevi” quando l'Italia ha richiesto maggiori coinvolgimento e contributi europei.
Ora i disgraziati hanno tracimato e sono passati in Francia e, da lì, adesso, premono sulla gran Bretagna. Evidentemente il problema non sta solo nell'incapacità italiana. Anche i francesi sono stati incapaci, quanto noi, di contenerli e sia Hollande che Cameron si ritrovano a caldeggiare le stesse richieste di Renzi, quelle che precedentemente avevano schifato con sufficienza.

A me sembra che il problema sia europeo a tutto tondo e che fino a quando ciascuno continuerà a suonare per i fatti propri i guai peggiori ce li costruiremo da soli.
Magari si può sempre sperare che la gente non scappi più da casa propria, ma dovremmo anche ingegnarci a non mungere più le risorse dei loro paesi nell'invereconda maniera che normalmente attuiamo.


Parte dei miei nonni, contadini e poveri in canna, quando qualcuno conciato peggio di loro si presentava alla porta lo sfamavano con un piatto di minestra, magari lunga e poco condita dato che i tempi erano duri per tutti, ma siccome la fame la conoscevano bene scattava una forma di solidarietà ben rappresentata dal detto, non sempre realistico, che “dove ce n'è per due, ce n'è anche per tre”, una cosa di cui ci siamo dimenticati.

mercoledì 5 agosto 2015

Quando si supera una soglia.

Recentemente si è consumato un mio piccolo dramma personale. Mi ero coinvolto, con entusiasmo, in un movimento che si proponeva di promuovere la nascita e lo sviluppo di una sinistra che fosse radicalmente lontana dai vizi che l'hanno sempre condannata al fallimento per asfissia. Niente verticismo, dunque, e linea e programma scaturenti da una coralità d'intervento dei partecipanti, peraltro provvisorie e da sottoporre al vaglio di un elettorato che, potenzialmente, avrebbe potuto anche modificarle cospicuamente.

Modello di riferimento, ma non necessariamente impegnativo, avrebbe dovuto essere Podemos, dove un nucleo di "specialisti" di scienze sociali e di attivisti politici hanno messo a disposizione di una base, magari priva di pregresse esperienze politiche, organizzazione, metodi di analisi e "consulenza" tecnica, ma per il resto con l'esplicito proposito di non eterodirigere il processo di elaborazione dei contenuti e delle finalità.

La possibilità di ovviare a quelle che io ho sempre ritenuto le "tare" della sinistra, verticismo, come torno a rimarcare, intolleranza ideologica, pratica egemonica e presunzione di capacità dirigenziale tutta da verificare, mi affascinarono e decisi di dare il mio piccolo contributo, convinto che, tra la mutazione neoliberale del PD e l'alternativa populista, e a mio vedere mendace, di M5S l'unica strada praticabile fosse la costruzione di una sinistra nuova e differente, in grado anche di accogliere il sentiment delle generazioni di giovani che si affacciano alla vita con un vissuto differente rispetto al mio, ultrasessantenne figlio di quella straordinaria esperienza che fu il '68.

Tra questi giovani e quelli come me c'è una sorta di vuoto esperienziale. Io sono il risultato di una continuità con le esperienze di chi mi ha preceduto. I termini di confronto dei quali mi avvalgo sono la mia elaborazione di un continuum fino a quel momento fluito senza vuoti o cesure.

I giovani coi quali mi confronto, invece, il più delle volte emergono da un'interruzione di quel processo, indubbiamente propiziato dallo smarrimento della via da parte di una sinistra moralmente subalterna, in questo periodo storico, ad un liberismo trionfante.

Maneggiamo i medesimi elementi, ma vi affidiamo significati differenti e spuntano quelle bizzarre asserzioni, in passato strumentali ad una destra che rifiutava di fare i conti con il proprio passato, come il concetto, straniante, che destra e sinistra siano categorie sorpassate.

Per quello che posso cogliere io, la presa di distanza dei giovani avviene principalmente sui connotati politici di un contendere che loro ritengono responsabile dell'attuale stato di cose, ragione per la quale se ne tengono alla larga e optano per un'assenza programmatica oppure concedono il loro favore a proposte antipolitiche, come quella di M5S.

Ritengo fondamentale promuovere un dibattito su questa mistificazione del presunto superamento dei concetti di destra e sinistra, perché la dimensione politica di quella contrapposizione non risiede nelle ideologie, che sono meri strumenti, ma nella dimensione sociale e antropologica.

È la tua visione della società, il tuo concetto di solidarietà, la tua idea di cosa è giusto e di cosa è sbagliato a qualificare su quale versante ti disponi, di diritto prima ancora che per scelta.

Questo, tra l'altro, comporta il superamento di uno steccato ideologico che affonda le sue radici nella nostra condizione di stato subalterno ad un potere confessionale effettivo che ingessa il dibattito.

Possiamo veramente non includere nella sinistra quelle componenti cattoliche che del riscatto degli ultimi della terra, declinato in una sfera sociale, hanno fatto la loro ragion d'essere? Possiamo isolare o mettere in quarantena i focolarini per esempio? O la Caritas? Ci siamo già scordati di Don Gallo?

È ovvio che nella pratica emergono frizioni e contraddizioni, in particolare sulle cosiddette questioni "di coscienza", ma queste avrebbero una forte probabilità di composizione, nel momento in cui si dovesse riuscire a superare le polarizzazioni imposte dalle componenti più intolleranti delle due parti.

Insomma, a mio avviso, è fondamentale superare quella dimensione elitaria che rende la "cooptazione", termine che non scelgo a caso, nel sacro recinto della sinistra non molto dissimile dai criteri schizzinosi e intimamente classisti che informano l'accettazione in un esclusivo country club.

Questo significa accettare indiscriminatamente tutti? Certo che no, altrimenti faremmo il paio con le primarie che consacrarono Renzi, innalzato sugli scudi dalle truppe cammellate del centrodestra, indebitamente infilatesi nel processo di identificazione della dirigenza di un partito teoricamente di centrosinistra. Ma bisogna fare lo sforzo di comprendere che i connotati antropologici di riferimento sono cambiati, e anche se gli strumenti classisti di coercizione sono rimasti sostanzialmente identici è cambiato il quadro operativo.

Noi "anziani" tendiamo naturalmente a fornire risposte che sono maturate negli anni '50, '60 e '70, ma il quadro sociale, grazie alla crisi, alla distruzione dei diritti faticosamente costruiti ed alle cosiddette riforme renziane è riconducibile maggiormente ad una fase molto precedente, direi agli anni '10 del secolo scorso, e speriamo che non si arrivi a Bava Beccaris.

Questi giovani non hanno prospettive, campano in genere grazie a redditi familiari che non dureranno per sempre e, fenomeno sottovalutato, non hanno mai maturato una risposta critica alle condizioni che patiscono, a differenza di chi li ha preceduti.

Non basta questo a convincerci che vanno ascoltati senza ingombranti paternalismi?
Non basta la constatazione che questo mondo, questa situazione, che a noi appare aliena, è in definitiva la "loro" realtà, l'unica che conoscono, che li accompagnerà nella loro esistenza, quella cui si devono adattare e che dunque a loro sta il compito di creare gli appositi e peculiari metodi di interazione?

Eppure ciò non avviene e, anzi, troppi tra quelli che si coinvolgono in esperimenti di rinascita divengono i portatori dell'esigenza, mortifera, di costituirsi in una sorta di Sant'Uffizio per la "purezza ideologica" e sfoderano presto la nota incapacità di gestire un confronto dialettico critico. Se la loro visione viene contestata, o anche solo discussa, si lanciano immediatamente nel confezionamento di pagelle infamanti o, se contestati nel metodo, si rifugiano in giudizi personali non pertinenti (hai un pessimo carattere).

Tutti hanno opinioni specifiche ed è lecito averle care, ma se brighi per omologare l'universo mondo al tuo sentire non fai altro che chiudere al confronto per non fare la fatica di metterti in discussione.

Questo a livello personale. Se la pratica viene invece trasportata a livello di strategia politica allora siamo in presenza della ben nota, e disastrosa, pratica egemonica, quella, per dire, che consegnò la Spagna a Franco, perché parve più importante far fuori gli anarchici che i nazionalisti, quella che, a un certo punto, mi convinse ad abbandonare la militanza attiva, visto che passavo più tempo ad accapigliarmi con Avanguardia Operaia che con i fascisti.

Aderendo a quel gruppo pensai, sperai, di potermi lasciare alle spalle questi meccanismi e, per un po', potei cullarmi nella convinzione che fosse maturata una robusta risposta alla loro nefasta influenza.   Ma sulla distanza vidi apparire all'orizzonte alcuni personaggi, estremamente assertivi e non scevri dal rivendicare una certa superiorità intellettuale e sapienziale, che in breve si arrogarono il diritto di contrabbandare le loro convinzioni quali linea politica del gruppo, il che è abbastanza strano vista la fase d'impianto dell'iniziativa, il riferimento a Podemos (in proposito venni informato che era un mio "trip", cosa falsa peraltro) e la totale assenza di un circuito formale e condiviso di definizione di programma e linea, tuttora in fase di definizione, checché se ne dica.

E fin qui potrei accontentarmi di definire criticamente quei personaggi, ma il fatto è che una volta acceso il dibattito, e sperimentata la solita panoplia di repliche assertive e indimostrate, nonché il solito ricorso a giudizi personali avvilenti (se fossi stato una donna, probabilmente, mi sarei sentito chiedere se avevo "le mie cose"), ho rilevato che quegli atteggiamenti non erano sgraditi ad alcuni dei più importanti amministratori del gruppo (che al momento si articola in una dimensione social), che intervennero avallando un presunto, e molto opportuno, personalismo narcisistico da parte mia, e allora ho capito due cose:
  • la nefasta pratica egemonica stava prendendo corpo e consistenza;
  • le mie considerazioni, evidentemente eretiche, erano già trattate quale espressione di una "cosca perdente", collusa, ideologicamente sospetta e non conforme a qualcosa che era stata proditoriamente eletta a riferimento programmatico.
Avrei potuto rimanere e lottare per le mie convinzioni, ma sono stanco di queste guerre. Ne ho viste a decine e so a quali abissi di impresentabilità possono arrivare. D'altra parte non mi andava neanche di promuovere un'opposizione che avrebbe potuto avere, se di successo, solo un esito scissionista. Sai che novità, e sai che comprovata efficacia.  Non intendo distruggere nulla, ma neanche collaborare, senza diritto di replica, a qualcosa che reputo sbagliato.

Dunque me ne sono andato e la cosa mi ha molto depresso, non perché non l'ho avuta vinta, ma perché, una volta di più, si è persa una buona occasione. Quell'esperimento, ne sono certo, ha in sé le stimmate del fallimento ed è un peccato, soprattutto per quei giovani che affrontano la vita isolati e separati, senza la coscienza di costituire un gruppo sociale in grado di farsi sentire.

Perché questa lunga giaculatoria? Perché sentivo il bisogno di mettere nero su bianco il mio pensiero.  Non ho fatto nomi e non ho identificato il gruppo e solo chi mi è più vicino, o ha assistito allo scontro, può contestualizzare la cosa. Non mi interessa sabotare e neanche vendicarmi, mi interessa solo esprimere dei concetti che non so neanche se verranno letti, ma che potrebbero fornire spunti, anche critici, a chi volesse leggerli.

So già che potranno anche suscitare reazioni alquanto negative, e non solo nei miei oppositori in quel gruppo, perché ho sostenuto cose che, nel panorama mentale di una "certa" sinistra, sono sospette, sbagliate o, per alcuni, un vero e proprio tradimento che mi potrebbe guadagnare l'etichetta, non molto esclusiva, di "fascista", ma non mi interessa.

Sono sul viale del tramonto e l'ultima scintilla si è appena spenta. Non concorro a premi simpatia e sono convinto che il riscatto passa solo dal coraggio di una radicale riscrittura delle strategie.


Se tutte le tue ricette hanno, ripetutamente, fallito non è l'esperimento che è stato condotto male, ma è la teoria che deve essere riesaminata. 
Questa è l'essenza del metodo scientifico, e dato che il marxismo-leninismo si fregiava della qualità di scientifico, ce n'è abbastanza da indurre a rivedere alcuni elementi.

domenica 2 agosto 2015

Chi è il carnefice? L'Euro o la struttura del potere neoliberista?

Tutta la manovra dell'Eurogruppo nei confronti della repubblica ellenica si è svolta sotto la soffocante presenza di due elementi:
  • il totale disprezzo per l'espressione della volontà di un popolo, mediata da percorsi rappresentativi democratici che, evidentemente, per il Direttorio in gran parte privato, non eletto e privo di controlli non hanno alcuna importanza
  • il costante, gelido e determinato, atteggiamento ricattuale nei confronti dei greci. 
Il tempo dedicato alle cosiddette trattative è stato impiegato dall'Eurogruppo pretendendo informazioni la cui importanza risiedeva semplicemente nell'effetto dilatorio che potevano consentire. 

Quei dati, una volta presentati, non venivano esaminati e davano luogo semplicemente ad altre richieste ugualmente inutili e ininfluenti. 
Ogni qualvolta Tsipras o Varoufakis ponevano sul tavolo qualche piano alternativo alla strategia di stretta austerity conculcata dall'Eurogruppo, quel piano non veniva esaminato, ma semplicemente rifiutato senza commenti che non fossero un generico rifiuto di una materia troppo politica a fronte di problematiche economiche, come se l'economia non fosse uno strumento di implementazione politica.



La Grecia è stata rintuzzata con le brutte e giocando sulla disparità dei rapporti di forza, totalmente favorevoli all'Eurogruppo.
In realtà così come la Germania ha bisogno di un'area Euro, altrimenti il suo export diverrebbe troppo sconveniente, anche la Grecia necessita di restare alla larga da un ritorno alla valuta nazionale, data la situazione fuori controllo del debito pubblico, che è in gran parte in mano a creditori esteri, e che la porterebbe in brevissimo tempo ad una dracma che varrebbe meno della carta su cui sarebbe stampata.


Tsipras ha valutato correttamente i rapporti di forza, le effettive possibilità tecniche del suo paese ed ha preso in considerazione la volontà del suo popolo che, in base ai sondaggi, ha dichiarato di non volere un ritorno alla dracma. Un traditore? Direi di no, piuttosto un dolente realista che ha riconosciuto la completa chiusura dei suoi interlocutori alle sue tesi e la volontà di questi ad ottenere quanto desiderato.



Io non sono un fan dell'abbandono dell'Euro, non fosse altro perché chi lo propugna, di norma,non dà segno di aver tenuto in conto tutti gli annessi e connessi della manovra, ragionando come quei tali che, quando sono nelle peste, sperano che cambiando quartiere cambi anche la sfiga, dimenticandosi che i problemi ti stanno sempre attaccati ai calcagni.

Uscire dall'Euro, se non sei in grado di sottrarti alle pressioni di chi già ti tiene in scacco, non serve a nulla, anzi non farebbe altro che facilitare a costoro il compito. Anche noi, come la Grecia, abbiamo il problema della consistenza del debito pubblico e l'identico problema del suo costante rinnovo. Molti mi obiettano che, passando ad una lira immediatamente svalutata, il nostro debito, ridenominato in lire, verrebbe automaticamente abbattuto in termini assoluti, il che è vero, ma dato che non possiamo prescindere dal rinnovo delle tranche in scadenza, le nuove emissioni avverrebbero a rendimenti percentuali proibitivi, a due cifre, vanificando in breve tempo l'efficacia della manovra.  O ci siamo già dimenticati come, agendo sullo spread, a suo tempo venimmo "messi al nostro posto"?     Euro, Lira o dollari di Monopoli noi non abbiamo, semplicemente, l'autonomia di cui necessiteremmo.


Rimanere nell'Euro, o andarsene, non incide direttamente sul vero problema europeo che è una governance ademocratica, quando non decisamente antidemocratica.
Esiste un parlamento europeo, unica istanza elettiva, che è però meramente consultivo, un orpello costoso ed inutile a schermo dell'effettiva residenza del potere.
Poi c'è la realtà fattuale di un direttorio la cui guida è la risultante di guerre per bande e che vede la presenza paritetica, ma ci sarebbe da discutere anche su di questo, di organismi privati, non controllabili ed autoreferenziali.


Dunque rimanere nella moneta comune avrebbe senso solo se tale stato di cose venisse corretto, ma anche uscirne risulterebbe conveniente solo concertando la cosa con gli altri “terroni” europei, concordando politiche, provvedimenti, una governance elettiva e che risponde all'elettorato e, magari, una divisa comune dalle caratteristiche completamente differenti da quelle dell'Euro (e con questo concorrente), con la facoltà di battere moneta a seguito di coerenti iniziative di politica economica.

In tutti e due i casi, evidentemente, non si può prescindere da un concerto tra le nazioni efficace e trasparente e che faccia tramontare quella “democrazia rituale” che vede alcuni “più uguali di altri”, con nazioni che cascano sempre in piedi ed altre che sono costantemente marginalizzate (una delle cause, tra l'altro, del sostanziale fallimento degli scopi dichiarati e dell'operatività dell'ONU).


Esiste questo concerto? Al momento no. I paesi si dividono tra capibranco, mosche cocchiere, mercenari interessati, speranzosi servi e sfigati in servizio permanente effettivo.
Mancano solidarietà e visione prospettica. Manca soprattutto, da parte degli speranzosi servi, la consapevolezza che anche se al momento non sei nella bufera, comunque il tuo nome è su di una “to do list” e che dunque prima o poi toccherà anche a te.
Mi viene in mente il brano di Brecht “
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano” ecc. ecc.


C'è un'alternativa, non so quanto auspicabile, che vede la Germania implodere sotto il peso della sua fragilità, costruita, non meno della sua prosperità, con solerzia ed applicazione e configurando un continente in tutto dipendente dalle sue necessità, ma che perciò stesso, è votato alla deflagrazione delle tensioni che ciò comporta.

A tal scopo mi sento di proporre un intervento al Bundestag dell'onorevole Gregor Gysi, del partito Die Linke, che inchioda Schäuble ed il suo partito alle responsabilità storiche del loro agire e che dopo aver detto che il Cancelliere effettivo non è la signora Merkel, bensì il ministro delle finanze, rincara la dose asserendo:

“voi della CDU vi vedete come i vincitori e voi della SPD volete vincere insieme a loro. Ma chi non riesce a smettere di vincere, prima o poi sarà chiaramente sconfitto”.




Un discorso devastante, che ci fa capire i reali rapporti di forza della politica tedesca, il golpe virtuale compiuto da Schäuble nei confronti della democrazia, greca quanto tedesca o degli stati sottoposti ai diktat della cricca neoliberista. 
Il vasto favore popolare di cui il governo tedesco può vantarsi, in questo lucido intervento viene denunciato quale risultato di menzogne accuratamente coltivate.

Una valanga di accuse inaggirabile, proprio perché denunciata da un tedesco.

E dunque, qual'è il vero problema, l'Euro o la configurazione dell'abortita entità europea?