sabato 25 novembre 2017

Fantastici sconti, occasioni irripetibili.

E' una settimana che ci menano il torrone, come si dice a Milano, con 'sta vaccata del Black Friday ed io, che ho una personalità oppositiva, mi sono guardato bene dall'approfittare dei fantastici sconti con i quali ci stanno martellando, anche perché è del tutto evidente che ci stanno pigliando per i fondelli.

Come avviene infatti con la nota azienda che propone divani e poltrone, con i suoi simpatici artigiani dalla divertente calata romagnola, quei  fantastici sconti  sono in realtà proposti, in un modo o nell'altro, tutto l'anno.

Si tratta in effetti di uno strumento marketing piuttosto banale, reso possibile da precisi prerequisiti che incidono sulla nostra qualità di vita, ma più come lavoratori che come consumatori.

Quelle fantastiche offerte, proposte tanto frequentemente da essere ormai diventate la normalità, sono infatti il controaltare di condizioni salariali marginali, in un contesto di normative lavoristiche integralmente sbilanciate a favore delle imprese, con lavoratori deboli, ricattati, precari e soggetti a condizioni operative e di vita vergognose e spesso sconfinanti nel paraschiavistico.

E quanto sopra vale se ci limitiamo al caso di produzioni in ambito occidentale, o alla distribuzione, ma se cominciamo a parlare delle snickers di uno dei famosi marchi mondiali, o di qualche pallone e di quasi tutti i capi d'abbigliamento griffati, oggetti cuciti e confezionati da eserciti di minori in antri fumosi e malsani in qualche slum del terzo mondo, allora ci trasferiamo in veri e propri gironi infernali.

Ma anche l'elettronica di consumo, col suo contenuto tecnologico che è fuori della portata esecutiva di bimbetti curvi su deschi sui quali consumano un'infanzia privata della sua innocenza,  viene prodotta ed assemblata in fabbriche lager convenientemente dislocate in paesi che sgomitano per percorrere, in una frazione del tempo occorso all'Inghilterra sette/ottocentesca, la loro personale rivoluzione industriale.

Una fase economica  che infatti si consumerà in una parabola drammaticamente più corta di quella originale, data la vicinanza del modello liberista alla sua consunzione per raggiunti limiti teorici ed operativi, per non parlare del consumo irresponsabile e suicida delle risorse naturali.

In quelle fabbriche la componente umana spesso vale meno delle attrezzature che maneggia, e risulta agevolmente sostituibile, ragione per la quale nessuno vede nelle malattie invalidanti, o nei suicidi da superprestazione, altro che un momentaneo intoppo.
Che si fa di un utensile di poco prezzo che si consuma?   Semplice, lo si getta, e si pesca dal cassetto uno nuovo. Amen!

Quei fantastici sconti sono in realtà resi possibili dallo sfruttamento di forza lavoro sistematicamente privata di forza contrattuale, e configurano non un prezzo di favore, valido solo per occasioni irripetibili, in realtà continuamente reiterate, bensì il reale valore di mercato di oggetti e servizi la cui vendita, a dispetto della presunta convenienza, comporta margini di guadagno abnormi per i colossali players che gestiscono l'affare.

L'economia è un classico esempio di sistema chiuso, a somma zero.   Al suo interno, in un dato momento, la quantità di ricchezza è un dato finito.  Se la sua distribuzione è iniqua i vantaggi stanno solo da una parte, e la cosa configura una prevaricazione sostanzialmente delinquenziale, qualsiasi cosa la mistica liberista appositamente confezionata all'uopo pretenda di dire a riguardo.

Prodotti e servizi vengono proposti a prezzi relativamente bassi ad un'utenza il cui potere d'acquisto viene costantemente mortificato dalle logiche che rendono possibili quei prezzi, in una spirale funzionale assurda, che massimizza i guadagni di pochi a spese del sistema sociale intero, dell'equilibio ecologico del pianeta e con sommo disprezzo della dignità di chi subisce gli effetti peggiori del sistema.

Io non so proprio dire se qualcuno o qualcosa saprà contrastare questo stato di cose, ma se non sapremo darci un limite siamo tutti destinati ad un medioveo distopico ad alta tecnologia e bassa vivibilità, come quello descritto in alcuni racconti o film di fantascienza sgradevolmente verosimili, come il pregevole Elysium.

Per il momento mi accontento di non collaborare troppo.  Opto dunque per gli acquisti che ritengo necessari, escludendo quindi le orge voluttuarie, quando l'oggetto, o il servizio, mi servono effettivamente, cosciente del fatto che l'urgenza di acquisto artificialmente indotta mediante sconti in realtà fasulli è al servizio di interessi assolutamente contrastanti con il mio.

Ma ci sono altre cose che mi rifiuto di fare, come per esempio approfittare degli assurdi orari di apertura della grande distribuzione.   Non ho alcun bisogno di comprare un etto di formaggio, o una camicia iperscontata, alle 22.00 di un sabato notte, o la mattina di S.Stefano.

E se invece non posso fare altro è perché quella possibilità è all'origine delle mie limitazioni, spacciate per opportunità dilatate, un po' come accade con il vetraio che ti sfonda la finestra con un mattone avvolto nel volantino della sua pubblicità.

Il primo passo è sempre la consapevolezza.   Poi, se si è intellettualmente onesti, e civicamente solidali, viene anche l'incazzatura, ovvero il mattone fondamentale di una riscossa veramente necessaria. 

venerdì 10 novembre 2017

Ma vuoi mettere un bel vaffanculo?

Leggo i post e i commenti di molti compagni che plaudono all'eclatante iniziativa dei giovani dei collettivi studenteschi e dei centri sociali che hanno interdetto a D'Alema e alla Camusso l'agibilità di un'aula all'università Federico II di Napoli, e vorrei esprimere alcune valutazioni in proposito

Vorrei, preliminarmente, chiarire che personalmente ritengo D'Alema uno dei principali affossatori dell'esperienza socialista, in senso lato, nella storia italiana, e certo la sua attuale funzione antirenziana non riesce a farmi dimenticare i numerosi, esiziali e marchiani errori compiuti, soprattutto alla luce del fatto che la sua offensiva è volta principalmente alla restaurazione di una formula politica, quella del centrosinistra, che è alla base dell'azzeramento del contrasto al disegno strategico del neoliberismo nel nostro paese.

D'Alema è persona intelligente, ma non è certo uno statista. La sua è la logica correntizia di chi è uso tirare coltellate nei corridoi tra le stanze della sede del partito, con una visione autoreferenziale che vede nella realtà del paese, con il relativo carico di sofferenze e marginalità, solo il necessario presupposto alla sua dimensione di attore politico.

Non sono tenero neanche con la Camusso e con la sua sostanziale, e fatalmente sospetta, inanità di fronte alla controrivoluzione liberista, propiziata dal disastro finanziario del 2008, varata da Monti, ma poi confermata dai governi PD succedutisi.
Non posso essere ben disposto nei suoi confronti anche perché, essendo tesserato CGIL da 41 anni, ed essendo stato membro del comitato degli iscritti della mia SAS per 36, conosco molto bene la deriva che ha afflitto quel sindacato e la sostanziale abdicazione di cui si è reso responsabile.

Se, dunque, fossi stato a Napoli il giorno del convegno, sarei stato impaziente di presenziarvi, in forma organizzata, per contestare a Camusso e D'Alema i loro errori strategici, e chiedere con quale credibilità possano ritenere di essere i giusti artefici di una ricostruzione della sinistra, cosa intendano in realtà quando ne parlano e, alla fine, inchiodarli alle loro specifiche, e gravi responsabilità.

Ma lo avrei fatto all'interno di un dibattito, che avrebbe dovuto essere certamente imposto, dato che il copione del convegno era già scritto, dando a quei due interlocutori lo spazio per esprimersi, confidando tra l'altro che ciò sarebbe andato a loro svantaggio, data l'assoluta evidenza dei loro errori.

Lo avrei fatto presentandomi in modo da non offrire il destro per essere fermato all'ingresso, perché il mio scopo non sarebbe stato quello di alimentare una lettura antagonista marginalizzata, una sorta di vittimismo agito per supplire all'irrilevanza mediatica e, sospetto, alla povertà dottrinaria sottostante, bensì la creazione di un momento di confronto in grado di far scaturire un contrasto dialettico.
Il mio scopo sarebbe stato di dimostrare l'esistenza di un'alternativa al revisionismo dei diversamente PD, un'opzione propositiva e non angustamente interdittiva, abbastanza vitale da andare oltre la dimensione meramente movimentista, seppure in divenire.

Lo avrei fatto tenendo in gran conto i valori di agibilità democratica per i quali i nostri padri, e i nonni di molti degli intervenuti, hanno tanto penato, pagando con la morte e con feroci ferite, nel corpo e nell'animo, perché certi trattamenti dovrebbero essere riservati al solo fasciume che distribuisce testate alla vigliacca ed esibisce labari e saluti romani senza più contrasto, a quel fascismo che riduce la dialettica solo al confronto fisico e sopprime le idee in quanto cascami inutili e costitutivamente sovversive.

Quello che è avvenuto dimostra prima di tutto l'irrilevanza operativa di chi lo ha promosso, e la propensione ad agire secondo una prassi di stampo rozzamente populista, non differente dalla pratica grossolana del vaffanculo militante, un metodo semplice per raccogliere consenso tra chi ha mille ragioni per sentirsi marginalizzato, fornire un bersaglio su cui scatenarsi e poco altro.

I fautori di quell'interdizione oggi potranno consolarsi con l'idea di esistere e di aver negato la possibilità di contrabbandarsi quale soluzione a chi è evidentemente tra le cause dei nostri problemi.


Ottimo. Rimane intatto il problema di ricostruire la sinistra, cosa di cui a mio modesto avviso a Napoli non vi è stata alcuna avvisaglia, magari andando oltre i fischi ed evitando di fornire a certi improbabili salvatori la patente di vittime.

lunedì 6 novembre 2017

"Il cecchino è il primo che muore" (Lestat V)

E' di ieri la notizia di una nuova strage di innocenti nel cuore dell'America rurale, perpetrata nel luogo e nel momento che un evento del genere sconcia più efficacemente: una chiesa, nel "giorno del signore" e mentre i fedeli, mietuti dalla follia dell'omicida, sono riuniti in preghiera.

La cronaca d'oltreoceano ci ha abituati a questo tipo di notizie che ci pervengono con sconcertante regolarità, testimoniando di ripetuti atti di solitaria follia, di persone che, in preda a disperazione o persi in qualche delirante complesso di persecuzione, si armano e urlano il proprio malessere uccidendo innocenti ed inermi che hanno la sola colpa di trovarsi nel luogo e nel momento sbagliati.

E' forse un portato dell'assuefazione se, in questa circostanza, mi sono ritrovato a discutere, sui social, su un aspetto funzionale dell'evento, più che del fatto in sé.     Un mio amico infatti si dichiarava un tantino perplesso per il fatto che le testimonianze parlano di "una ventina di colpi sparati" a fronte dei quali ci sono 27 morti e 24 feriti, imputando la discrepanza alla scarsa attendibilità di testimonianze rese da persone sotto stress.

La verità è che un corpo umano non è un "bersaglio duro", ed una pallottola 357 magnum, per esempio, o una 44, potrebbe trapassare un primo bersaglio e conservare abbastanza energia per uccidere o ferire ancora una o due vittime allineate sulla traiettoria, e in una chiesa si sta raggruppati.

Ho rappresentato questa considerazione dilungandomi in una serie di considerazioni tecniche, che qui ometterò, ma poi mi sono reso conto che apparentemente io ed i miei interlocutori stavamo comportandoci come quei becchini di lungo corso che si puliscono le unghie mentre attendono di riempire la fossa, distaccati e indifferenti di fronte alla morte.

Non è così naturalmente. Su quella tematica in particolare sviluppai una speciale sensibilità a seguito di un'esperienza mentale che feci sotto le armi quando, imbracciando per la prima volta un fucile d'assalto carico, mi chiesi cosa sarebbe successo se, dando fuori di testa, avessi sparato, al poligono, verso i miei commilitoni schierati per tre invece che verso il bersaglio.

In quel frangente fui a un passo dal gettare l'arma, dato che mi resi conto del potere devastante che gestivo in quel momento.    La cosa mi prese di sorpresa; ero molto giovane e non mi ero ancora preso il tempo di analizzare le implicazioni del mio obbligo di leva, essendo questo un passaggio implicito e scontato della mia fuoriuscita dalla condizione di adolescente in attesa di "fare sul serio".

Fu un momento importante della mia vita, che mi rese consapevole di cose cui non avevo mai realmente pensato prima. 
In molti film di guerra, Full Metal Jacket per esempio, si parla del fatto che la mente è la principale componente del "sistema d'arma sniper".
Quando si impugna un'arma carica ci si assume una responsabilità enorme, sempre, anche nell'ambiente controllato di un poligono.
Se la mente è debole o disturbata, o si agisce con leggerezza, il fatto di essere agenti di morte diventa un fattore che assume il controllo della tua volontà.

Ma anche se la mente è equilibrata l'atto di uccidere, ferire o invalidare, soprattutto non sotto l'impulso dell'autoconservazione, comporta un prezzo esorbitante, una perdita di integrità sull'altare di un compromesso tra la tua natura di animale sociale, portatore di una cultura antropologica eticamente evoluta, e le ragioni di sopraffazione del dispositivo organizzato che rappresenti, e per conto del quale agisci.

In questo senso sono stato molto colpito dalla frase che ho utilizzato per il titolo di questo testo.     Il cecchino, quando spara il suo primo colpo "vero",  uccide l'innocente che è in sé, prima ancora che il proiettile esca dalla volata del suo fucile e prima di uccidere il suo bersaglio.

Il folle che ha compiuto la strage in Texas pare fosse un ex militare e che fosse mosso da risentimenti di origine familiare. Mi chiedo se ha provato, la prima volta che ha imbracciato un'arma carica, la stessa inquietitudine che provai io a suo tempo, e quali e quanti punti critici ha incontrato maneggiando, da soldato, i suoi strumenti di morte.  Di certo in uno di quei momenti ha perso il retto cammino.