domenica 22 novembre 2020

L'alternativa del diavolo




Non molti mesi fa l'Associazione Genitori Tarantini ETS poneva ai sindacati e ai lavoratori dell'impianto siderurgico di Taranto, che stavano manifestando per la difesa del posto di lavoro, la seguente domanda:

«Secondo voi, Costituzione italiana e Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla mano, quello svolto nell’acciaieria tarantina è lavoro o schiavitù?  Da cittadini, da padri e madri, da nonni, da fratelli e sorelle, da amici, vi chiediamo: vista la più che comprovata nocività per l'ambiente e la salute derivante dalle emissioni dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico [...] siete ancora disposti, in così poche migliaia, a condizionare la salute e il futuro di 575.000 cittadini della provincia o dedicherete il vostro impegno per la chiusura delle fonti inquinanti, la bonifica e la riconversione e il rilancio del territorio?»

La domanda, insidiosissima, sottolineava la sostanziale non conciliabilità delle istanze di chi difende un posto di lavoro, un reddito per "campare la famiglia", e chi privilegia la salute di tutti, in primis i propri figli, così sensibili ai veleni che un impianto siderurgico, tra l'altro vetusto e tecnologicamente arretrato, produce in quantità più che cospicue.

Non vorrei davvero essere nei panni di un operaio tarantino in cassa integrazione e in predicato di licenziamento, unico percettore in famiglia di reddito in una terra avara di occupazione, che è anche padre di uno o più bambini in età scolare o prescolare, perché avrebbe problemi giganteschi a rispondere a quella domanda senza mancare nell'assolvimento delle sue responsabilità.   E anche senza essere padre, per chiunque dotato di un minimo di empatia e senso di responsabilità, si tratta in ogni caso di un quesito che non prevede una risposta "immancabilmente giusta".

Esistono situazioni che non consentono alcuna confortante nettezza nel prendere posizione, circostanze nelle quali il bivio decisionale che ti si presenta è una "alternativa del diavolo", con un un prezzo salato da pagare qualunque strada si decida di imboccare.

Qualcosa di simile sta avvenendo ora, durante la pandemia, quando collidono le esigenze sanitarie che esigono una forte compressione delle attività, in primis quelle commerciali, e le esigenze di una parte di popolazione che, a seguito di quella strategia, si ritrova con ampie voragini reddituali e costanza di esborsi, una combinazione veramente pessima.

Come si risponde ad un problema del genere?  Chi ascolti? Quali aspetti della crisi privilegi?   La salute pubblica, che si preserva a spese del portafoglio o il reddito, che si assicura a spese di un contagio che diventa rapidamente incontrollabile?
A cosa ti servirà essere sano se creperai di fame o verrai sfrattato?
A cosa ti servirà avere un reddito se poi finirai sul tavolo dell'imbalsamatore o sarai reso invalido dalle conseguenze a lungo termine del coronavirus? 

Un'alternativa del diavolo da manuale, con una "terza via" miseranda, prodotta dal compromesso tra governo centrale e presidenti regionali, questi ultimi il più delle volte espressi da un'opposizione politica quanto mai inferiore alla bisogna.

Si tratta di un pastrocchio che riesce a mettere insieme tutti i difetti delle due risposte con ben pochi dei vantaggi relativi, in un un caleidoscopio di colori e livelli differenziati di provvedimenti che sono spesso la certificazione di chi riesce a "pisciare più lontano", il ministro di turno o il cosiddetto governatore della regione, gialla, arancione o rossa, a seconda dei casi, l'un contro l'altro armati.

Il fatto è che quando piove ci si bagna, e non serve a molto inveire contro la nuvola.      La pandemia, al contrario della situazione tarantina che è un problema creato integralmente dall'uomo e dall'avidità del capitale, è un evento naturale, statisticamente inevitabile, e infatti atteso, perlomeno dalla comunità scientifica, ma non messo a bilancio preventivo dalla sfera politica.

Gli aspetti antropici dell'epidemia in corso sono tutti nel mancato approntamento dei mezzi per affrontarla decentemente, e non solo nella prima ondata, che ci ha colti di sorpresa, anche se non avrebbe dovuto essere così, ma pure nella seconda, peggiore della prima e per la quale ci sono ancora meno scuse per la delittuosa impreparazione.

Dunque piove, anzi diluvia, e i pochi ombrelli non bastano, e spesso sono anche fetenti e sbrindellati.     Quando sarà finita sarebbe bello poter inchiodare certi personaggi alle loro responsabilità, ma credo che anche stavolta molti di loro cascheranno in piedi, lanciandoci in pasto qualche collaboratore da sbranare, colpevole solo di aver soddisfatto i loro desideri.

Comunque ci penseremo quando sarà il momento.  Ora bisogna tener duro finché non torna il sereno e smetterla di inveire contro il destino cinico e baro, anche perché molti dei disgraziati che ci hanno messi in questa situazione li abbiamo ripetutamente votati e, anzi, gli teniamo bordone anche ora, bevendoci tutte le panzane che ci rifilano.

giovedì 24 settembre 2020

The Day After



A sinistra abbiamo la tendenza a svolgere analisi a corto e medio raggio, limitandoci ad eventi specifici, valutando gli scenari introduttivi che li hanno preceduti e le conseguenze immediate, e questa è la ragione, a mio parere, per la quale finiamo sempre col giocare di rimessa, subendo l'iniziativa altrui e ballando al suono di musiche scelte da altri.

Anche in questo referendum che ha così drasticamente “sfoltito” il Parlamento, in improvvide commistioni con le elezioni in alcune regioni, ci si compiace del fatto che un determinato piano dell'antagonista baciatore di rosari non sia andato in porto, perlomeno non integralmente, dimenticandoci che da anni si continua ad arretrare, senza mai riuscire a proporre un proprio disegno autonomo che non sia la contesa della titolarità, sullo stesso piano programmatico, di processi di schietta matrice centrista con vaghe tracce socialdemocratiche, come le "rare emazie" in un campione di urina, e frequenti e compiaciuti scivoloni liberisti.

Si, Capitan Mojito non si è preso la Toscana e le Puglie, ma le Marche sono andate ad un presidente neofascista.
La "spallata" non c'è stata, però di questo dobbiamo ringraziare solo il fatto che Salvini è uno scaltro affabulatore, ma anche un miserabilissimo stratega, ed è solo grazie a lui se il disastro è stato agendato a data futura.

Quello che ci viene suggerito da queste elezioni è che:

  1. il PD ha sospeso, perlomeno momentaneamente, il processo di sublimazione che lo stava erodendo;

  2. M5S ne esce devastato dalle proprie contraddizioni, dall'analfabetismo politico che lo ha sempre contraddistinto e dall'incapacità di transitare dal ruolo di opposizione a quello di governo, vantando solo una decente prestazione nell'emergenza pandemica, dato che non vi era spazio per il suo bestiario riformista;

  3. la Lega paga per la ormai lampante incapacità di Capitan Coniglio di evitare di chiudersi le palle nel cassetto, dalla crisi di governo post Papeete a scendere;

  4. Forza Italia è ridotta a semplice segnaposto ad una tavola dove non si nota la sua eventuale assenza;

  5. Fratelli d'Italia aggancia il cuore nerissimo di un popolo di cuori neri in quiescenza, ora “felicemente” sdoganati, e si appresta a diventare qualcosa con cui fare i conti realmente.

Il centrodestra non ha vinto, ma nemmanco ha perso; è in crisi di trasformazione. 
Al suo interno abbiamo un processo di transumanza di voti e peso politico, e ciò significa solo che sta ruzzolando ancora più a destra e che non appena avranno deciso chi va fatto fuori e chi va promosso riprenderà lena la liquidazione della Repubblica nata dalla Resistenza.

Questo processo non verrà contrastato certo da M5S, che si appresta a diventare una scommessa definitivamente persa, ma neanche dal PD che, ben lungi dal tornare ad “essere” di sinistra (millanta di esserlo, ma "solo un pochino" beninteso), inseguirà i favori di un centro moderato che non ha alcuno stimolo a prestare orecchio a dei trasformisti non troppo abili.

Su “cosi” come Italia Viva o Leu o altre briciole che verranno spazzate via dalla prossima legge elettorale direi che possiamo sorvolare senza rimpianti.

La nicchia tassonomica del panorama politico dedicata alla sinistra rimane ostinatamente vuota, e certo non verrà occupata dai pochi organismi identitari monocellulari che hanno per scopo ed obiettivo la rivendicazione di “giustezze” dottrinali che non possono permettersi devastanti impatti con la cruda realtà.

Eppure quella nicchia andrebbe occupata, sia per dare alle dinamiche politiche e al futuro del paese il contributo di proposte realmente alternative all'imperio liberista e alla deriva autoritaria, sia per rianimare quel pezzo di elettorato (intorno al 50%, ma con tendenza a crescere) che non vota più e che non intende farsi ricattare da voti utili in favore di chi ha confezionato i presupposti per questo scempio, a beneficio immeritato di chi ci ha devastati non per semplice inerzia, bensì portando a compimento quasi tutto quello che Berlusconi non riuscì a finalizzare, quando esisteva una vera opposizione e non dei “concorrenti”.

Ora vedo molti compagni che scrivono che “è il momento di creare una sinistra unita”. E' il momento?
E si, cazzo, è da un bel pezzo che “è il momento”.
Come no.
Però ci crederò quando lo vedrò.


sabato 19 settembre 2020

Un SÌ è per sempre.





Perché ho deciso per il NO?

Perché la pretesa maggiore efficienza rivendicata dai promotori del taglio del numero di parlamentari è una ridicola etichetta che nasconde solo il disprezzo per la politica e per il concetto di democrazia rappresentativa.

La vittoria del sarebbe solo il primo passo di un processo di annichilimento di un sistema democratico che è senz'altro sofferente, ma che necessita di un ripristino e non di una liquidazione, di cui il taglio è solo l'incipit.

Una volta ridotto il numero di parlamentari, e ridotta di conseguenza la rappresentanza di interi territori, accorpati su base numerica e senza alcun riguardo per la complessità delle condizioni specifiche, si passerà alla legge elettorale.

Questa, la cui bozza attualmente in discussione già conferma il sistema vigente di designazione dei candidati a stretta discrezione delle segreterie partitiche, vedrà anche il perpetuarsi dell'impianto maggioritario, perché anche questo ritenuto più "efficiente", essendo tutti coloro che non rientrano in una grande famiglia precostituita indegni di vedere rappresentate le proprie istanze.    E pazienza se questo accento maggioritario è la ragione principale che ha portato il 50%, grosso modo, degli elettori a disertare le urne, rendendo la nostra democrazia un fenomeno che parla a nome della metà del popolo che la esprime.

Il passo successivo sarà un altro must pentastellato, ma non disdegnato neanche da altri partiti che hanno già dimostrato di  ritenere la propria base elettorale un pretesto, ma anche un fastidio, ovvero l'imposizione del "vincolo di mandato", ora espressamente vietato dall'art. 67 della Costituzione, un articolo voluto dai Padri Costituenti in quanto reduci freschissimi da un regime nel quale un parlamento del tutto ornamentale vidimava i voleri dell'uomo della provvidenza.

Così quando avremo finalmente un organo legislativo ridotto, designato dal vertice e privato di autonomia decisionale,  capiremo anche che, in fondo, di quel "votificio" non ne abbiamo realmente bisogno e passeremo - torneremo - ad una snellissima ed efficientissima dittatura o, se ci va bene, ad una sorta di CdA nazionale con consiglieri che rappresentano le quote azionarie, i voti, del proprio partito.

E non venitemi a coglionare con le panzane della "democrazia diretta", perché l'unico esperimento fin qui condotto, oltre che di evidente facciata, si è segnalato per inefficienza, scarsa partecipazione e, soprattutto, per non essere per nulla vincolante, come Grillo evidenziò così bene, quando fu obbligato a partecipare all'incontro con Renzi, forzato dai pochi iscritti, rispetto agli elettori, alla piattaforma Rosseau, cosa che poi fece, ma sabotandolo.

E meglio non fece quando la stessa piattaforma designò, nel 2017, Marika Cassimatis quale candidata sindaco per Genova, situazione che vide ancora l'intervento del "detentore del marchio", che la definì una candidatura imbarazzante e poi forzò una nuova votazione con unico candidato.

Dunque ho deciso per il NO, anche se so che in questo clima di jacquerie antipolitica non si tratta certo del cavallo favorito, ma se dobbiamo andare a sbattere, ebbene sarà senza il mio contributo.

venerdì 21 agosto 2020

L’ozio non è il non far nulla. L’ozio è essere liberi di fare qualsiasi cosa. (Floyd Dell)

Oggi ho letto un post nel quale si parlava dell'ozio quale pratica indispensabile all'uomo moderno per difendersi dallo straniamento di uno stile di vita che non concede "spazi di ricarica".

Leggendolo mi è venuto in mente che quando accettai di divenire un esodato, preludio ad una pensione che poi venne messa in grave pericolo dalla professoressa Fornero, alcuni colleghi mi chiesero cosa avrei fatto "con tutto quel tempo libero", pronosticandomi un futuro di noia e vuoto.

Io risposi, istintivamente e senza pensarci che lo avrei "buttato via" finalmente e che la cosa mi avrebbe dato un piacere dionisiaco, dopo una vita passata a rispettare scadenze serrate e tempi ristretti per conseguire obiettivi spesso irrealistici e invariabilmente per conto terzi.

E così è stato, anche se dopo un po' decisi di utilizzare una bella fetta di quel tempo in favore di alcune passioni trascurate (chitarra, ballo e scrittura), sfide (imparare a leggere uno spartito) e in una attività di volontariato piuttosto appagante.

Alla fine poi, non si tratta propriamente di ozio, ma di tempi rilassati, della perdita di una dimensione di frenesia contrabbandata come valore, ma che in realtà non è niente di più di un pesante basto impostoci sul groppone da gente che ha "oziato" veramente per tutta la vita.

D'altra parte è stata poi una fortuna poter disporre di tanto tempo libero, dato che la salute è peggiorata e gli accessi alla sanità pubblica, biblicamente prolungati, mi avrebbero messo in seria difficoltà se fossi stato ancora un lavoratore attivo. I lavoratori, dopo la cura renziana del job act e della promozione del lavoro precario a scapito di quello a tempo indeterminato, e annessa sterilizzazione dello Statuto che ne tutelava i diritti, sono divenuti a tutti gli effetti degli "strumenti", e che cosa si fa con uno strumento usurato? Ma lo si butta, che diamine, per prenderne un altro, e il serbatoio di disoccupati con basse pretese, perché tenuti programmaticamente a stecchetto, è sempre pieno.

I giovani di oggi sono vittime di un furto atroce. Costretti ad un precariato diluito in uno stato prevalente di disoccupazione, hanno prolungati periodi di inattività, che però non possono essere definiti "ozio", perché troppo carichi di un'ansia che tiene in uno stato di incertezza e impedisce l'inverarsi di un progetto di vita qualsiasi. E, ancora peggio, anche se precariamente impiegati in qualche sottopagato lavoro, è loro virtualmente impedito di costruire un cammino previdenziale adeguato, che comunque sarebbe molto più lungo di quello delle generazioni che li hanno preceduti nel dopoguerra e che si risolverebbe in un assegno assai striminzito.

Ci hanno privati della dignità del lavoro. Ci hanno privati di un accesso all'ozio, quale compenso di una vita operosa e dunque, sulla base dell'aforisma che funge da titolo per questo breve testo, ci hanno privati della libertà.

giovedì 21 maggio 2020

Fa un etto e mezzo, lascio?

Si moltiplicano i post sugli aumenti di prezzo praticati dai negozianti che hanno appena riaperto i loro esercizi dopo la lunga traversata del deserto pandemico, e dato che oggi sono in modalità “qui una volta erano tutti prati”, mi è tornata in mente una discussione con un cliente della banca nella quale ho lavorato a lungo, nel... millennio scorso.

Allora prestavo servizio in un'agenzia situata in Piazzale Dateo, a Milano, una zona sul limite tra i quartieri popolari ed operai del Calvairate e quelli "signorili" a ridosso della circonvallazione interna.

La clientela, ai tempi, era relativamente diversificata e al suo interno commercianti, piccoli professionisti, rappresentanti e qualche benestante senza occupazione immediatamente riconoscibile, ma con cospicue rendite finanziarie, facevano la parte del leone.

Ero ancora un “assistente alla clientela”, dizione convenientemente approssimativa che significava tutto e niente, e mi trovai a discutere con un cliente, un florido grossista di attrezzature per laboratori alimentari, pasticcerie e simili, del fatto che avevamo negato una linea di credito alla figlia, che aveva a sua volta un conto presso l’agenzia, anche se il suo negozio di abbigliamento sportivo era in via Paolo Sarpi, dall’altra parte della città.

Via Paolo Sarpi, per chi non conosce Milano è, assieme a Via Canonica, il cuore di un quartiere cinese che esiste perlomeno dai tempi di mio nonno, molto prima che scoppiasse la Grande Guerra, anche se la consistenza della comunità cinese è stata, fino agli inizi degli anni ’80 molto più contenuta di quanto non sia ora.

Ho dei ricordi, da bambino, di signori cinesi che non spiccicavano una parola d'italiano, ma avevano una padronanza del dialetto meneghino che avrebbe suscitato l'invidia perfino di Carlo Porta.

Comunque sia, ai tempi la presenza cinese cominciava ad ispessirsi, ma quella zona rimaneva ancora un quartiere della vecchia Milano e nessuno avrebbe ipotizzato che, il decennio successivo, le insegne di via Sarpi sarebbero state tutte scritte in cantonese o mandarino, e che un italiano avrebbe potuto percorrerla tutta, ed è bella lunga, col rischio di non capire nessuno e di non farsi capire da alcuno.

Però la spietata politica dei prezzi era già allora la strategia principale praticata dai commercianti cinesi, e la signora che aveva richiesto la linea di credito era in affanno, perché in una zona che andava configurandosi come una specie di discount commerciale, lei, perseguendo margini elevati a prescindere, praticava prezzi d'affezione per articoli di qualità medio alta, col risultato di dare una severa “rasoiata” ai suoi introiti. 

Fu per quello, per la contrazione degli affari derivata da un'errata valutazione della sua presenza commerciale, che richiese l'erogazione di un fido di cassa, per galleggiare in attesa... di cosa? Probabilmente che i cinesi sparissero dalla circolazione. 

Quel fido però le fu negato in quanto i dati finanziari e reddituali che poté fornire, ulteriormente depressi, io credo, da una certa “disinvoltura” fiscale, erano troppo scarsi per rendere sostenibile l'operazione.

Il padre, che a differenza della signora, era un uomo d'affari e non un “bottegaio”, se capite la differenza che sto sottolineando, non si sognò neanche di contestare la mancata erogazione. La sua opinione, anzi, fu che la figlia “non aveva capito nulla”. Secondo lui, infatti, avrebbe dovuto abbassare i prezzi e scegliere una linea di prodotti più conveniente, giocandosela più sul versante “gusto”, che certo non era un punto di forza cinese. 

Quello che la signora fece, invece, fu di alzare i prezzi, per cercare di rifarsi su quelli che ancora entravano nel negozio, con il risultato di andare in default piuttosto alla svelta, senz'altro molto prima che il quartiere venisse completamente colonizzato dagli operatori orientali.

La frequentazione dell'ambiente dei commercianti al dettaglio, in quanto dipendente bancario, non mi ha aiutato granché ad avere rispetto per le loro capacità, perché ho visto, con una frequenza decisamente elevata, un'attitudine all'avventurismo, che è cosa diversa dal saper assumere un rischio, desolatamente preponderante.

La vita del commerciante, di suo, non è proprio tutta rose e fiori. Quando le cose girano bene è possibile fare ottimi affari, ma è quando le “vacche sono magre” che emergono i difetti strutturali.
E' allora, infatti, che le condizioni marginali che erano bastate a tenerti sul mercato in tempi migliori spariscono ed evidenziano che ti andava bene perché era tutta in discesa, non per merito tuo.

Quando i tempi si incupiscono il cliente, che il più delle volte non se la cava meglio del negoziante, tuttaltro, è lesto ad andare dove gli conviene di più, e pensare di aumentare il prezzo di vendita per rifarsi delle perdite significa solo avvicinare il momento in cui si portano i libri in tribunale.

Il mondo degli affari è brutalmente darwiniano, e l'imprenditore, piccolo o grande che sia, e il bottegaio è un piccolo imprenditore, è convinto che vada bene così... fino a quando non gli va storta.

E' allora, quando perde la sua posizione all'apice della catena alimentare, che chiede, anzi pretende, aiuti cospicui e possibilmente a fondo perduto, assegnando colpe a tutti e rivendicando la titolarità esclusiva delle sfighe del mondo.

Eppure in genere si tratta degli stessi soggetti che sostenevano che i sindacati, con  quella che definivano, con disgustato disprezzo, la loro mentalità da "pasti gratis", fossero la rovina dell'Italia.







sabato 9 maggio 2020

Un popolo di irresponsabili?


Premessa: sarò acido e aggressivo, perché sono stanco e insofferente, e certi atteggiamenti mi sono diventati insopportabili.

La domanda, retorica, che mi pongo è: siamo forse un popolo di adolescenti irresponsabili?
La risposta, a mio avviso, è sì, assolutamente, lo siamo e non manchiamo mai di dimostrarlo, impermeabili alle grame figure che rimediamo in continuazione.

TUTTO IL MONDO e non solo il proprio importantissimo ombelico, è stato flagellato da una pandemia che al momento in cui scrivo ha fatto perlomeno 275.000 morti a livello globale, e contagiato non meno di 3,96 milioni di persone. 
Tutte e due le cifre tra l'altro peccano in difetto, perché si tratta delle evidenze SICURAMENTE riferibili a COVID 19 mentre, alla luce dello scarso rigore col quale sono state condotte le rilevazioni, è del tutto ragionevole pensare che ambedue siano seriamente sottostimate.

Nel momento della salita vertiginosa dei grafici, quando il raggiungimento del "picco", quello che poi si è rivelato un "pianoro" scomodamente protratto nel tempo, sembrava un traguardo lontano da cui ci separava un calvario cupo e misterioso, abbiamo potuto beneficiare di un salutare silenzio, ma è stato un breve intervallo, purtroppo, preceduto da tracotanza adolescenziale ed ora seguito da intolleranza altrettanto immatura, ma espressa con geriatrica querulità.

Tutti quelli che, all'inizio, berciavano di "giocosi" sberleffi da fare all'incipiente pandemia, convinti di una propria magica immunità, come altrettante reclute che ancora devono passare la prova del fuoco, ci hanno ampiamente messi a parte della loro indifferenza guascona verso un pericolo "sicuramente sopravvalutato", invitandoci a superare una cautela eccessiva con spensierata lievità, secondo il loro pensiero magico.

Nel mio ristretto giro di conoscenze ne ho visti parecchi così, sprezzanti di un pericolo che ancora non aveva bussato alle loro porte, irridere chi, come il sottoscritto peraltro, pensava che determinate cautele fossero ragionevoli e giustificate.

Le stesse identiche persone poi o si sono zittite bruscamente quando, come dicono elegantemente gli americani, la "merda ha raggiunto il ventilatore", oppure sono divenute portatrici di un panico molto malamente dissimulato, con inevitabile coda di salti di umore, in una continua altalena tra irragionevole euforia e abissi di profonda depressione, per poi quietarsi definitivamente, ben seppelliti dentro un loro piccolo buco esistenziale, in una stordita quiescenza nella quale veniva bandito ogni pensiero prospettico, perché troppo atterriti dalla roulette russa cui si sentivano ingiustamente assoggettati.

Coraggio ce l'ho. È la paura che mi frega. (Totò)


Poi quel pianoro è stato raggiunto, e successivamente le cose sono migliorate, ma l'emergenza non è ancora alle nostre spalle, è solo acquietata, contenuta a prezzo di notevoli sacrifici personali e sociali, che hanno preteso un prezzo elevato a spese del nostro equilibrio psichico, della qualità delle nostre vite, e troppo spesso con effetti disastrosi per il reddito di milioni di persone, che devono perciò subire una malattia cui si aggiunge un futuro tormentosamente cupo.

E' anche il momento nel quale quelle persone, irragionevolmente gradasse ai primi brontolii del tuono, poi così atterrite nel pieno della tempesta, si risvegliano e cercano di rifarsi tornando a pretendere magiche ripartenze, premature e rischiose.

Siccome mal digeriscono la scomoda vigilanza che dovrebbe condurci in una ripresa che nasconde molte insidie, e non concepiscono che la loro personale sfera di conforto possa soffrire di limitazioni, si attaccano ad ogni possibile schema complottaro per giustificare "oggettivamente" un'insofferenza che è invece del tutto personale e solipsisticamente egoista.

Nulla viene lasciato cadere a questo scopo, né la ricerca di magici rimedi che "risolvono", come la faccenda del plasma, né ogni tipo di svalutazione di un governo che è colpevole di tutto.

E' colpevole dell'insorgenza della malattia, del suo mancato contenimento iniziale, dell'eccessivo contenimento attuale, delle "insopportabili" limitazioni, sicuramente dettate da ansie autoritarie che molti di loro vedrebbero con favore, se proposte dai loro beniamini politici.

Ed è indubbio che quello stesso governo sarà sicuramente responsabile anche delle conseguenze della possibile ricaduta che stanno preparando questi immaturi, tristi e rabbiosi "anziani ragazzi" che si pongono unicamente lo scopo di tornare alla svelta ad una normalità che sarebbe in realtà impraticabile, al momento e nei connotati da loro auspicati.

Un bambino è irresponsabile per inadeguato sviluppo cognitivo e per un'innocenza che è il portato di una vita brevissima.

Un adulto è, auspicabilmente, un soggetto responsabile che si assume la responsabilità delle scelte che si trova ad operare.

In mezzo c'è uno stato evolutivo che, in culture meno "avanzate" (sic!) è temporalmente e convenientemente compresso. E' lo stato adolescenziale, quello nel quale alla persona non è più consentito di mantenere atteggiamenti infantili, ma non è ancora concesso di essere ritenuto degno di definirsi adulto, perché ancora sottoposto ad un addestramento che deve portarlo, in breve tempo e mediante un percorso definito da antiche sapienze, alla capacità di prendere responsabilmente posto nel consesso della parte attiva della sua comunità.

In società più sane, dove l'individuo viene responsabilizzato e reso cosciente del suo ruolo, il passaggio è convenientemente breve. Nel nostro contesto la persona è meglio non sia troppo autonoma e responsabile, perché sarebbe un pessimo "utente", laddove per utente si intende un soggetto continuamente blandito, al servizio di "questo e di quello" che possa alimentare uno sviluppo che è dei profitti, e non della comunità.

Durante la fase percepita come più minacciosa della pandemia, abbiamo visto come la natura, non più brutalizzata, fosse in grado di riprendersi e cominciare a curare le peggiori ferite che le abbiamo inferto, se solo le concediamo di farlo.
Abbiamo visto come sia possibile teorizzare, e dunque mettere in atto, un assetto differente, meno dissipativo, nel quale la tecnologia che abbiamo sempre demonizzato potrebbe essere utilizzata per ripensare il modo di lavorare, di muoverci, di produrre e consumare. Abbiamo visto come potremmo interrompere la folle corsa verso il precipizio che la "dittatura dei dividendi" ci stava imponendo.

Ci siamo detti, in un accesso di speranzoso ottimismo, che avevamo capito e che non saremmo più tornati a farci del male. Che la dura lezione ci aveva mostrato sentieri alternativi da percorrere, per stare meglio e consegnare ai nostri figli un pianeta in salute e non un fetido bugliolo pieno di rifiuti e scorie.

Ce lo siamo detto, e il relativo silenzio confutativo ci ha illusi che fosse effettivamente in atto una presa di coscienza collettiva, un momento di crescita, ma era solo perché i rodomonti da retrovia erano chiusi nei loro buchi, intenti a non esporsi.

Gli animali selvatici si erano impossessati di strade e giardini, le acque di mari e fiumi erano tornate limpide e salubri, la Pianura Padana era tornata a respirare.
Ma era solo una breve pausa.   Finita la grande paura, come loro credono, siamo tornati a sbagliare come se dovessimo vincere una scommessa.

Ora che le loro preziose chiappe, apparentemente, non sono più minacciate sono tornati a strisciare fuori, e ci insultano per la nostra "eccessiva cautela".
Non abbiamo ancora capito un accidente, altro che "
andrà tutto bene". Collettivamente siamo come quei ragazzi brufolosi che non hanno ancora capito che la vita è una faccenda mortalmente seria.

L'equazione è relativamente semplice.   Stavamo affondando nella merda, è arrivato SARS COV 2 e voi vi siete rintanati.  Certe cose hanno cominciato subito a migliorare.
il virus è stato contenuto, non sconfitto, siete usciti dai vostri buchi, e abbiamo subito ricominciato a peggiorare.

Mi sa che la malattia non è COVID 19, siamo noi.   Il virus è solo la "risposta immunitaria" di una terra violata.

venerdì 20 marzo 2020

La fragile "democrazia pandemica".

Scusate, sarò più prolisso del solito, ma solo Trump pensa che un tweet basti e avanzi, e tra le mie poche qualità quella del dono della sintesi brilla per assenza.



Questo articolo (qui il link) mette nero su bianco le preoccupazioni di molti di noi, talvolta declinate in chiave complottarda, ma più spesso con la sincera preoccupazione di chi sa quanto sia delicato l'assetto democratico.

I più anziani tra noi ricordano i tempi bui del "terrorismo di stato" e dell'uso criminale e liberticida che venne fatto della paura, ma si stanno scordando che quei disegni vennero alla fine sconfitti dalla risposta immunitaria della gente che rigettò quel disegno.     Sembrano anche sottovalutare che quelle bombe furono un'azione consapevole di chi voleva destabilizzare, mentre questa pandemia, al netto delle letture complottistiche, è un evento statisticamente atteso, una disgrazia non meno naturale di altre, come i terremoti.

Come in altre disgrazie naturali, ovviamente, sono le scelte strategiche fatte prima dell'evento a marcare il grado di difficoltà che sperimentiamo nell'affrontarle.

In questo caso paghiamo la visione aziendalistica della sanità, vista come lucrosa attività e non invece, come dovrebbe essere,  quale settore che assicura il benessere ed il regolare funzionamento di una società, oltreché il diritto fondamentale alla salute e all'assistenza medica.

Inoltre non sono più tra di noi i più anziani, quelli che vissero una o anche due guerre mondiali, e che non sentivano la sopravvivenza come un "diritto acquisito" e che dunque, al contrario di noi occidentali (in altre parti del mondo la cosa è differente), non si sentono traditi per il brusco contatto con la fragilità umana cui siamo oggi costretti.

Molte persone si sentono smarrite, tradite, spaventate e spesso danno risposte esageratamente emotive.    Hanno fin qui vissuto il tutto tracciando una parabola classica nelle fasi che la compongono.  
Iniziale sottovalutazione, risposta irridente, perfino "guascona", presunzione di immunità a prescindere, avversione ideologica alle prime restrizioni, coltivazione compiaciuta dell'italico individualismo che ci contraddistingue.

Poi i primi dubbi, esorcizzati con i flash-mob, i canti alle finestre, gli hashtag auto-motivazionali (#andràtuttobene), chiari segni di un panico a malapena contenuto e pronto a scattare.  Chi, solo una settimana fa, trattava con condiscendenza noi poveri idioti che esortavamo a ridurre le uscite, ora si apposta alle finestre e insulta i passanti, perché adesso deve prendere atto che pure il suo importantissimo culo è in gioco.

Dunque il panico ti fa invocare le restrizioni che fino a poco fa ti andavano strette, e pretendi l'esercito nelle strade, con amministratori locali e politici che non aspettavano altro che questa vidimazione popolare.   Per converso le maggiori restrizioni fanno scattare la natura oppositiva di altri, che a quel punto e improvvisamente da olimpionici del divano si tramutano in maratoneti kenioti, smaniosi di frequentare parchi e giardini, cosa che giustifica ancora di più la stretta impositiva sulle libertà personali perché, per quanto possa essere strumentalizzata, la circolazione ridotta al minimo indispensabile è al momento l'unica profilassi possibile.

Sta di fatto che le perplessità sulla tenuta del sistema democratico si fanno più pressanti e l'articolo che ho linkato più sopra costituisce una buona riflessione sull'argomento.
Il danno maggiore, secondo me, viene dalla decisione presa inizialmente, non so quanto "incosciente" e quanto" incompetente", di ventilare una risoluzione dell'emergenza a quindici giorni. Una cosa irrealistica, decisa forse per sostenere il morale. 

Un piccolo sforzo e poi ne saremo fuori, ci hanno detto, ma i più avveduti tra di noi, e devo dire che siamo la maggioranza, non pensava veramente che sarebbe andata così, e infatti ora siamo in molti a non essere per nulla stupiti del fatto che "si vada lunghi".

Il problema però è che chi invece ci aveva creduto, soprattutto chi aveva bisogno di crederci, ora si sente tradito, e magari fosse solo questo. Il fatto è che si tratta delle persone che, caratterialmente ed emotivamente, sono tra quelle più facilmente soggette a farsi prendere dall'agitazione, quando non dal panico.

Hanno "voluto" credere al decorso sprint, anche se irrealistico, perché non volevano prendere in considerazione altre ipotesi, ed ora si trovano a sbattere la faccia contro ai loro timori, tra l'altro con molto tempo per pensarci e poche cose da fare per concentrarsi su altro.

Certo che ci sono pericoli per l'impianto democratico, e non voglio pensare cosa sarebbe successo se al comando ci fossero stati Salvini e la Meloni, con le loro suggestioni dittatoriali, ma il fatto è che non ci sono solo quei pericoli e, per quanto importante sia la democrazia, al momento abbiamo anche un altro problema che contende, per così dire, la vetta della classifica.
Si, perché noi ora noi abbiamo per le mani un bel problema. L'emergenza giustifica le pesanti limitazioni, l'individualismo sfrenato di molti da una parte pregiudica l'efficacia dei provvedimenti, dall'altra sollecita giri di vite che possono diventare pericolosi, se non tenuti sotto controllo, e il panico comincia a serpeggiare, grazie anche a quella iniziale sottovalutazione, che si è rivelata un autogol. E il panico è una brutta bestia, che chiama molti comportamenti sbagliati, personali, sociali e politici.

Maggiore autoritarismo è la risposta sbagliata, ma anche un malinteso sentimento democratico a prescindere è sconveniente.
Non credo ci sia una risposta "prét a manger" per la problematica in questione.

Dobbiamo aumentare la vigilanza democratica, ma come noto gli incendi non si spengono spiegando loro che sono devastanti.

mercoledì 18 marzo 2020

La gestione del panico ed altre cose

Userò nomi di fantasia.   

Eufrasia, la mia compagna di allora.
Evaristo, il mio "migliore amico" (notare le virgolette).
Ginevra, l'amica in crisi matrimoniale.

Tanti anni fa feci un'escursione sopra Cogne con Eufrasia, Evaristo e Ginevra che era venuta con noi da sola, perché in momentanea rotta col marito.
Anche io non ero messo benissimo nel rapporto con Eufrasia, ma non sapevo ancora quanto, e del resto il "marito" è sempre l'ultimo ad accorgersi che qualcosa non va.

La stagione era molto avanzata, faceva un discreto fresco e gli stambecchi avevano già abbandonato le quote più elevate, stazionando placidamente di traverso al sentiero, preoccupando non poco Ginevra, che osservava quei bestioni con molta diffidenza.

Non avevamo tenuto nel debito conto che le giornate si erano molto accorciate e che, tranne noi, in giro non si vedeva nessuno, quando invece in alta stagione c'erano dei momenti nei quali sembrava di stare sotto la Galleria Vittorio Emanuele all'ora dell'aperitivo.

Sta di fatto che ci eravamo attardati ad ammirare lo splendido panorama del Ghiacciaio della Tribolazione e ci trovavamo ancora a più di un'ora dal luogo ove avevamo parcheggiato la macchina.    Non eravamo sicuri di riuscire ad arrivarci prima che il buio ci cogliesse ancora distanti e su un sentiero ripido e pieno di sassi e spuntoni. 

Eufrasia aveva, ed ha tuttora presumo,  una vera predilezione, costantemente e tenacemente negata, per il melodramma.   Gli elementi che stavano guastando il nostro rapporto, e quanto lo avrei appreso entro breve, venivano in gran parte dal fatto che riteneva la mia naturale cautela niente più che un tratto di pusillanimità e indecisione, che faceva di me un "compagno di vita inadatto".

Continuava a creare presupposti critici e punti di svolta nella nostra vita, tutti radicali e spesso drammatici, invariabilmente pretestuosi  e non di rado assai teorici, essendo opzioni di vita che non aveva alcuna intenzione di attivare, ma che architettava per mettermi alla prova, sfidandomi ad affrontarli e a risolverli senza alcun tentennamento, manco fossimo in un reality.

Io d'altra parte ai tempi, grazie alla costruzione di un rilevante senso di inadeguatezza indotto da un padre piuttosto manipolatore, non ero molto sicuro di me stesso, e tutto quel lavorìo mi instillava qualche dubbio.  
Ero giovane e anche un po' stupido.

Compresi dopo che mi stavo semplicemente difendendo, e che se fossi stato appena un poco più fiducioso in me, avrei potuto mettere le cose in chiaro, ponendo fine a tutto quell'onanismo emozionale.   Comunque Eufrasia era arrivata alla soglia del disprezzo, e si stava apprestando a varcarla perfino con una certa malcelata soddisfazione, dato che sentiva che i suoi timori erano prossimi ad essere "confermati".

Comunque sia quel sabato pomeriggio non eravamo certo in pericolo di vita, ma neanche messi benissimo.   La montagna non ama essere trattata con superficialità, e spesso impartisce rudi lezioni.    Sta di fatto che avevamo un problema da risolvere e non potevamo certo chiamare un taxi che ci togliesse dagli impicci.

Eufrasia, con una voce da stoica pioniera sull'orlo di una crisi di nervi, cominciò ad esprimere ad alta voce la sua preoccupazione per i guai nei quali ci saremmo trovati di lì a non molto, immaginandosi, con qualcosa di più di una morbosa soddisfazione, tutti i rischi che tra poco avremmo immancabilmente corso.         

Credo che, assieme ai deliziosi brividi che stava provando si immaginasse di uscire, in qualche modo, con qualcosa da raccontare con uno sguardo "fisso a 5.000 iarde", come dicono i marines emersi fortunosamente illesi dalla battaglia di Pusan.

Io, ormai avvezzo allo stile eufrasiano, non prestai all'inizio molta attenzione, ma poi mi resi conto che Ginevra aveva smesso di preoccuparsi degli stambecchi e che stava andando in iperventilazione, mentre Evaristo, con la voce grave di chi stava accedendo al patibolo, dipingeva con grande verosimiglianza i traumi che ci saremmo procurati camminando su un terreno sconnesso, al buio, in forte pendenza e con il gelo che sarebbe calato su di noi, stroncando vite che avevano ancora molto da dare.

Non lo feci coscientemente, ma ruppi la malsana immobilità e mi incamminai con passo lungo e ben disteso, incitando gli altri a muoversi e sottolineando il fatto che avevamo ancora una discreta possibilità di fare al buio solo l'ultimo tratto pianeggiante e piuttosto ben livellato, e parlando con un tono colloquiale  di cosa avremmo mangiato in albergo.

In breve mi trovai condurre il piccolo gruppo, sopravanzando tutti di una ventina di metri e inducendo i miei compagni ad allungare il passo per raggiungermi.
Eufrasia in particolare allungò il passo più di tutti, e tra il meravigliato e lo stizzoso mi chiese che cosa stavo facendo.

Rispondendole mi precipitò la consapevolezza piena del mio pensiero, fino a quel punto latente, e le dissi:
"siamo in una situazione che possiamo risolvere solo noi stessi.    Stare qui a piangere non ci aiuta e può anche essere che non ce la faremo a rientrare in tempo, ma se non ci diamo una svegliata, è del tutto sicuro che i nostri peggiori timori si avvereranno, dunque muoviamoci e facciamo in modo che nessuno rimugini troppo sulle proprie paure".

Lei mi guardò prima meravigliata e poi discretamente incazzata e mi disse: 

"ah, il piccolo Duce.  Si fa dunque quello che dici tu e basta. Bella democrazia".  
Non ho mai compreso veramente se si incazzò per la mia botta decisionista o perché stavo smentendo il pessimo giudizio che aveva di me, avendo già irrevocabilmente deciso che ero un irresoluto privo di attributi.
Avrei dovuto capire in quel preciso momento che era finita tra di noi, ma come ho detto ero giovane e stupido.

Alla fine rientrammo in albergo in tempo e senza problemi e gustammo un'ottima polenta con umido di cacciagione.
Ginevra si dimenticò subito tutto e cominciò a pensare a come ricucire, al ritorno, il suo incagliato matrimonio.
Evaristo fece di tutto per dimenticare di aver traballato moralmente.
Eufrasia non me la perdonò, e di lì a poco, come nella sceneggiatura di una pessima telenovela, mi diede il benservito, andandosene con Evaristo, il mio ex "migliore amico", e a distanza di anni direi che mi è andata di lusso.

Quello che mi è rimasto di quella esperienza è che il panico è un animale infido, che ti azzanna le chiappe e poi non ti molla.   Devi rintuzzarlo subito e anche se, per farlo, ti ritrovi a fare l'equivalente di respirare in un sacchetto, come si fa nelle crisi di iperventilazione.

E' per questo che in questi pandemici giorni mi sento di intervenire appena sento una voce che si incrina.

lunedì 24 febbraio 2020

Università della vita, un pessimo ateneo.




Oggi ho condiviso un post della mia amica Annalisa Santi, appassionata tanguera e valente ricercatrice matematica, che sottolinea un effetto spesso sottovalutato nel campo della statistica, e più in generale, nella valutazione di ogni umana attività.

Quando si procede ad una qualsiasi attività di rilevazione di fatti e fenomeni, bisogna tenere ben presente che eventuali confronti vanno fatti tra situazioni che risentono degli stessi presupposti oppure, se le condizioni di base ed ambientali cambiano, bisogna saper inserire nella valutazione gli opportuni correttivi, cosa peraltro di non immancabile efficacia e con tassi di verosimiglianza spesso opinabili..

Io non posso, per esempio, trascurare l'incidenza di un qualsiasi fenomeno o evento per decenni e poi, non appena mi do la pena di ricercarne la ricorrenza, ululare alla luna per un "drammatico incremento del fenomeno" che rilevo, e di cui fino a poco fa me ne sbattevo bellamente.
Incremento rispetto a che cosa, benedetto iddio? Rispetto al disinteresse che nutrivo per la cosa fino a cinque minuti fa?

Si tratta però di un errore più comune di quanto si pensi, soprattutto in tempi di tuttologi laureati all'università della vita e di mestatori seriali con finalità politiche, che deriva dal confronto di situazioni che si sviluppano in base a dinamiche non direttamente confrontabili, o rilevate con criteri non omogenei, o derivanti da differenti condizioni di base, trattate però come se fossero del tutto omologabili.

Mi viene in mente, in proposito, mia madre, classe 1921, che diceva sempre che "un tempo non c'erano tutti questi tumori".     
Si tratta di un'affermazione sicuramente drammatica, e molti tendono a sottoscriverla senza indugio alcuno, ma noi in realtà non possiamo affermarlo con tutta quella ostentatissima sicurezza, dato che la gente un tempo moriva prima di poter soccombere ad un carcinoma e per altre malattie, poi diventate curabilissime (tra l'altro nel frattempo anche molti tumori non sono più la condanna a morte di un tempo), e credo di poter affermare, senza tema di essere smentito, che sia difficile fare confronti epidemiologici decenti per le patologie tumorali tra chi è nato, vissuto e defunto prima e dopo Chernobyl, per fare un esempio.

In particolare Annalisa esprime sconcerto nei confronti di chi sostiene che in Italia sia in corso una drammatica epidemia, mentre nella vicina Francia non stia praticamente accadendo nulla.

Eh certo, apparentemente è così. Solo che mentre da noi si fanno "tamponi" a tappeto, oltralpe se ne fa uno ogni 7,5 dei nostri. Ovvio che da noi risultino più casi di contagio, dato che li andiamo a cercare.
Per quanto ne sappiamo a Parigi torme di "untori a loro insaputa" stanno seminando "vairus" (si, c'è anche chi anglicizza il termine) a secchiate, e tra una settimana o due assisteremo a procedure di isolamento tra i vari dipartimenti (le loro province) non dissimili dalle nostre.

O magari i nostri cugini transalpini avranno reazioni più rilassate delle nostre, o forse no, perché il francese medio sarà anche meno melodrammatico di noi, però in compenso è molto più irascibile e tignoso. Forse non andrà in panico, ma cercherà qualcuno da ghigliottinare davanti alle pronipoti delle tricoteuses del XVIII secolo, magari sfoggiando un gilè giallo.

Ma c'è un'altra considerazione da fare. Per quanto risulta fino ad ora, questa epidemia non è letale come il sovraeccitato animo di qualcuno sembra pensare.
Le possibilità di contagio e gli esiti letali (pochi e confinati a soggetti già provati da precedenti patologie, che li rendono meno resistenti) sono quelli della comune influenza, che ha gli stessi fattori di rischio e tassi di trasmissibilità, ma che percepiamo come "normale", ragione per la quale passiamo attraverso a cicliche epidemie ogni anno senza fare neanche una piega.

Non ci sarebbero, a ben vedere, gli estremi per gli scaffali vuoti nei supermercati del lombardo-veneto, però è quello che sta accadendo, perché quando si sta in mezzo alla folla e si grida “al fuoco” poi certe conseguenze sono inevitabili.

Vorrei infine rilevare che l'amministrazione leghista lombarda si è stranamente ben portata, fin qui, nella gestione della questione Covid19,e mi costa un po' dichiararlo, come ho già manifestato sui social, data la scarsa considerazione che ho di quella parte politica.

Sono state attivate strutture e procedure forse sovradimensionate, ma in questo tipo di emergenze non è sbagliato eccedere, entro certi limiti.

Il problema, semmai, sta in certi sovraeccitabili laureati presso il frequentatissimo e tossico ateneo di cui al titolo, che abboccano a tutte le corbellerie possibili e immaginabili e che, pur essendo ignoranti come capre poco sveglie, elaborano teorie demenziali post-apocalittiche alla Mad Max, senza minimamente riuscire a tenersele per sé.


giovedì 13 febbraio 2020

Piove sul giusto, ma anche sull'ingiusto, occasionalmente e per cambiare.

Sallusti, impareggiabile megafono della versione berlusconian-destraiola della realtà in questo disgraziato paese, conciona sull'uso politico della magistratura e su una a suo dire "mancata" separazione dei poteri costituzionali nella vicenda della concessione dell'autorizzazione a procedere contro l'ex Ministro degli Interni, Sua Ferocità Salvini, per la vicenda di Nave Gregoretti.

A suo dire questa sconcezza, che tale è il giudizio dell'incredibile direttore responsabile de Il Giornale, sarebbe stata messa in atto consentendo che il cittadino Salvini, come tutti i cittadini di questo paese, venisse messo nella posizione di rispondere del proprio operato in un'aula giudiziaria.

Il cittadino senatore Salvini verrà dunque giudicato, dopo che gli è stato 
contestato un reato, nei termini e modi previsti dalla legge, e dopo che un dispositivo di salvaguardia, di cui non tutti i cittadini possono beneficiare, ovvero un'autorizzazione parlamentare rilasciata in due fasi successive, commissione ed aula, ha detto che sì, Sua Ferocità Salvini ha operato in modo abbastanza opaco da meritare un procedimento giudiziario.

Vorrei peraltro sottolineare che un'azione giudiziaria è cosa diversa da una condanna, ma anche dall'assoluzione "a prescindere" che Sallusti, Salvini e tutto il bestiario della destra auspicavano.

Del resto che si può pretendere da chi sostenne senza vergogna i ridicolissimi e presuntissimi rapporti di parentela di un'arrogante ragazzina marocchina con un presidente egiziano?

Io non sono certo un'estimatore di Emma Bonino, ma oggi ho ascoltato una sua dichiarazione che condivido in pieno.
La senatrice infatti ha detto che Salvini ha il diritto di difendersi in "un processo", ma non quello di difendersi "dal processo".

E sì, esimio direttore Sallusti, e garantisti destrorsi a comando, ma normalmente forcaioli con i vostri avversari, viviamo in uno stato di diritto, nonostante i vostri titanici sforzi per far finta di stare in una "democrazia discrezionale".
Gli individui sono liberi di agire come credono, ma poi devono assumersi la responsabilità di quello che fanno, e la sede ove ciò avviene è un'aula, ma non quella parlamentare, bensì quella di un tribunale.

E ancora si, miei cari analfabeti costituzionali, tali non per ignoranza, ma per calcolo, il Senato della Repubblica non ha condannato Salvini, e neanche lo ha assolto, perché non è nelle sue prerogative farlo.  Quella è una funzione che viene svolta altrove.

Quello che può fare il Senato è mettere in atto una decisione, quella si politica, che sancisce che l'operato di un ministro della Repubblica è tale da meritare, o meno, un esame da parte della Magistratura, la quale, in questo caso, agisce solo dopo che un altro potere, quello legislativo, ha consentito che ciò accadesse.

Dunque quello che può fare il Senato è sottrarre un parlamentare al vaglio della giustizia, e spesso l'ha fatto, proprio con il senatore Salvini tra l'altro ed in una precedente occasione, ma non questa volta.


E alla fine non è detto che Salvini venga condannato, ma certo farà "fruttare" questa faccenda con la sua abituale e invereconda furbizia da peronista fallato.
Nulla, in questa vicenda costituisce un vulnus per le istituzioni, tranne il suo tentativo di porsi fuori della legge e di atteggiarsi a vittima.

Il Senatore Salvini sperava forse di farla franca, come nel caso di Nave 
Diciotti, solo che chi gli lanciò allora una ciambella di salvataggio, l'ondivago M5S, ora non ha battuto ciglio ed ha votato per l'autorizzazione a procedere. 

Quando ha capito che questa volta non avrebbe potuto ricattare con successo gli alleati che a suo tempo congedò con l'improvvida crisi di governo che decretò il tramonto del Conte 1, il prode Matteo ha deciso di giocarsela sul lato emozional-ricattuale, calandosi nelle vesti di difensore della Patria, vittima dei poteri forti, disegnandosi come vittima e gettando, leoninamente, non il cuore oltre l'ostacolo, bensì i figli, quelli sì innocenti e incolpevoli.

Non so come andrà a finire, e in fondo il GIP potrebbe pure decidere di non procedere, però mi disturba parecchio chi ciancia, inutilmente e non solo a destra, di "politica per via giudiziaria".
Noi siamo un paese che ha avuto come Presidente del Consiglio un personaggio che è stato condannato in via definitiva per reati di natura fiscale, commessi mentre era in carica o da parlamentare della Repubblica, e che ha caldeggiato leggi che hanno frenato il regolare decorso dei procedimenti nei quali era imputato.

In uno stato di diritto chi sbaglia deve essere giudicato e, se del caso condannato.   Se qualcuno pensa che lo status di deputato o senatore costituisca motivo di automatica impunità, ebbene credo che dovremmo allora parlare piuttosto di "giustizia per via politica", come in una buona, vecchia, cara, nauseabonda e schifosa repubblica delle banane qualsiasi.

venerdì 17 gennaio 2020

"La domanda"

Oggi, esattamente 45 anni fa, il rumoroso ACM che ci aveva prelevati alla stazione FS di Casarsa della Delizia, dopo averci abbondantemente affumicati coi gas di scarico che la turbolenza portava malignamente nel cassone, varcava la porta carraia della caserma Arduino Forgiarini, a pochi chilometri da Tauriano di Spilimbergo, ove era di stanza il 32° Reggimento Carri, cui ero stato assegnato.    


Il mio scaglione, in quel tempo di esperimenti che preludeva alla riorganizzazione dell'Esercito, che seguì sette mesi dopo, non venne inviato ai vari CAR e BAR, ma direttamente ai reparti di destinazione.

Era una giornata fredda, ma illuminata da un sole splendente.   Era il 17 gennaio del 1975, ed era un venerdì, esattamente come questo 17 gennaio, dunque cominciai sfidando subito  la fortuna. 
  
Ero partito la mattina dalla Stazione Centrale di Milano, e fu l'unica volta in 14 mesi che viaggiai seduto, su quella tratta.   Tutte le altre volte rimasi in piedi nei corridoi di vagoni strapieni.    

Arrivato a Casarsa vidi diversi camion dell'Esercito fermi di fianco ad un capannone, con alcuni militari in mimetica che individuarono subito noi "burbe" in mezzo ai viaggiatori che scendevano dal treno.

Con sorrisi vagamente inquietanti alcuni di loro, che portavano sulle controspalline le insegne di ACS, ci fecero avvicinare e ci chiesero le cartoline di precetto, per individuare le nostre destinazioni e smistarci verso il camion giusto.

Quel piazzale infatti era una sorta di occasionale "stazione di corriere" dalla quale raggiungere una delle numerose caserme di cui il territorio era cosparso.
Ai tempi la Cortina di Ferro era ancora una realtà solidissima e apparentemente inamovibile, dunque la gran parte dell'Esercito era schierata sulla cosiddetta "Soglia di Gorizia", uno dei punti di supposta penetrazione delle forze del Patto di Varsavia, insieme al "Varco di Fulda" in Germania, ragione per la quale il Friuli era una specie di mondo militare, con una presenza civile che si teneva il più possibile distante da torme di ragazzotti troppo turbolenti e dagli ormoni eccessivamente baldanzosi.

Una volta giunti in caserma, mi ritrovai in un mondo che aveva pochissimi contatti con tutto ciò che avevo fino ad allora sperimentato.          Persone si muovevano dappertutto, intente a compiti misteriosi e non facilmente intuibili.     Tutto era disposto in rigide geometrie, simmetriche eppure ineleganti per una certa aria di stanca ripetitività.

Falangi di ragazzi, ma in quel momento mi parevano tutti più "grandi", si muovevano inquadrate, quelli col basco nero con un passo lento e insolitamente determinato, quelli col fez rosso di corsa e con una stranissima "pesante lievità" (lo so, è un ossimoro, ma con le fuggevoli sensazioni si deve essere pronti ad accettare tutto).     

Vedendo quelli che ancora non pensavo come miei commilitoni, ebbi la prima dimostrazione che i reparti corazzati e meccanizzati non erano composti da corpi omogenei, bensì da specialità che si dedicavano a compiti distinti, ma sinergici, e che in quel mondo di uniformità accuratamente perseguita vi erano dettagli che dividevano tutto in categorie precise, secondo una tassonomia definita in ogni più minuto particolare.

I muri erano cosparsi di massime scritte in caratteri neri e "militarmente" nitidi, una delle quali, scopersi di lì a poco, mi avrebbe riguardato personalmente.   Di lato al cancello carraio infatti campeggiava la scritta "automezzi al passo, bersaglieri di corsa".

Venimmo fatti scendere dal camion e introdotti nella palestra, ove vidi un comitato di accoglienza abbastanza ben organizzato.   Al centro del locale erano state disposte alcune scrivanie, a cui stavano seduti militari in ordinata successione di grado.

La procedura di incorporazione ebbe così inizio, e mi diede la chiara dimostrazione che l'Esercito ha un metodo, ma che quel metodo possiede una sua misteriosa dinamica, imperscrutabile, ove le necessità dell'ordine prevalgono su quelle dell'efficienza, e la cosa, che ha elementi più estetici che funzionali, non disturba proprio nessuno.

La prima scrivania era presieduta da un maggiore carrista il quale mi chiese la cartolina di precetto ed il nome.  Consegnai il cartoncino e dissi "Roberto Rizzardi".
Lui mi diede una breve occhiata e mi fece "la domanda" (perché la metto tra virgolette sarà chiaro in breve).       Mi chiese "sai scrivere a macchina?" (allora la truppa veniva apostrofata con la seconda persona singolare) e "sai guidare?".   Sono due domande in effetti, ma mi vennero poste in un modo che chiariva la loro indissolubile concatenazione.  
Risposi no alla prima e si alla seconda.  Lui, abbassando lo sguardo e scrivendo qualcosa su un grande registro, mi disse "Bersagliere" e mi fece cenno di accedere alla seconda scrivania, immediatamente adiacente alla sua, ove era seduto un maresciallo, carrista pure lui, che mi chiese a sua volta il nome.  

Glielo dissi, e lui  mi corresse subito, aggiungendovi il mio grado, così appresi che da quel momento il mio nome corretto sarebbe stato "Bersagliere Roberto Rizzardi".  Chiarito questo dettaglio, anche lui mi fece "la domanda", cui ovviamente risposi allo stesso modo.
Il maresciallo mi disse "5° Battaglione" , e mi indirizzò alla terza scrivania, alla quale sedeva un sergente maggiore, stavolta un bersagliere.

Il sottufficiale mi chiese nuovamente il nome, ed io risposi, in un fiato,   "Bersagliere Roberto Rizzardi, 5° Battaglione", perché avevo sgamato subito il sistema.
Incredibilmente anche il sergente maggiore mi fece "la domanda", cui risposi nel solito modo, e lui mi invitò a passare alla scrivania a lato, l'ultima, aggiungendo "6ª Compagnia".

In fondo alla filiera dei misteriosi intervistatori stava un caporalmaggiore carrista, in mimetica, che mi chiese pure lui il nome  e a cui risposi con la tiritera, a quel punto completa, che informava il richiedente del mio status.
Lui non mi pose "la domanda", del resto era un caporalmaggiore e non contava nulla, come potei comprendere successivamente, soprattutto dopo aver conseguito lo stesso grado; mi disse semplicemente: "incarico 60".
Gli chiesi in cosa consistesse, e lui mi rispose: "ti è andata di culo, spina", e mi indicò una porta, dalla quale uscii per completare la procedura di incorporazione nel reggimento.

Mentre ero in coda per ottenere  gli "effetti letterecci", quelli che conoscevo come lenzuola e coperte, adocchiai un soldato che mi pareva abbordabile e gli chiesi che accidenti fosse un "incarico 60", e lui mi rispose: "scritturale".
Ma come, dissi, mi hanno continuamente chiesto se sapevo scrivere a macchina, rispondendo sempre no, e mi fanno scritturale?    E lui: certo, altrimenti avresti avuto l'incarico 23, ovvero dattilografo, e stai certo che non potevi essere conduttore di automezzi, con quegli occhiali.

Così cominciò il mio servizio militare, sottoposto ad una serie di domande rituali le cui risposte non avrebbero influito su un destino ed un incarico già predefiniti, anche se su basi in gran parte casuali.

Bersagliere in un battaglione e compagnia di carristi, per il momento e fino al giuramento ed alla fine dell'addestramento propedeutico, e con la certezza, a quel punto, che se fossi stato capace di mantenere la calma ed il distacco, ogni tanto avrei potuto farmi anche qualche bella risata, e fu così che andò.