martedì 22 settembre 2015

Tanto peggio, tanto meglio.

Vedo che la lettura che avvalora la figura di uno Tsipras sostanzialmente colluso e rinunciatario piglia sempre più quota, con un rateo di salita temperato solo, per non contraddirsi troppo, dall'esigenza di non stridere eccessivamente con il favore triburatogli fino al mortifero memorandum.

Si, è vero, Tsipras non ha vinto il confronto con l'Europa a guida germanica e, perdendo, ha spento le speranze di tutta la sinistra europea, quella che nelle singole nazioni non ha alcun motivo di rallegrarsi, data l'irrilevanza media che la contraddistingue, o la metastasi centrista che la corrode.
Non rimane che rifugiarsi in Podemos, per quanto già guardata con un po' di sospetto, o  nell'inaspettato Corbyn, così incongruamente e inopinatamente emerso da quel feudo liberale che è la Gran Bretagna.

Queste due entità, Podemos e il Labour finalmente post-blairiano, sono sugli scudi, anche perché arrembanti e tuttora in fase progettuale, e dunque non ancora venuti a contatto con il potere interdittivo e ricattuale che esprime la cosca neoliberista che ci dirige con spietata determinazione.   Chissà se, una volta esposte al potere contrattuale di chi ha tutte le briscole in mano, e qualche asso nella manica, sapranno cavarsela meglio o se faranno la fine del vituperato Alexis.

Intanto la cruda luce del massimalismo, funzionale se non programmatico, azzera ogni sfumatura, dunque qualsiasi distinguo o elemento di complessità diventano, ipso facto, un cedimento.
La via è decisa e semplice: no Europa e no Euro, ed è giusta tra l'altro, ma solo per ragioni strettamente congiunturali.  L'averla imboccata, inoltre, segnala esclusivamente l'accettazione di una sconfitta ineludibile, e la predisposizione di un percorso alternativo degradato rispetto al progetto iniziale, fallito miseramente.

Noi, in realtà avremmo bisogno di una “entità Europa”, ma certo non di quell'orrido simulacro che ne ha preso il posto, smisurata provincia asservita e subalterna agli interessi neoliberali.
Non ci si può confrontare con i colossi economici che si spartiscono il mondo rimanendo nella mera dimensione nazionale, ma neanche si può farlo divenendo la marca esterna di un impero parassita e noncurante.

Dunque una strategia di uscita dall'Euro e dalla trappola di un'Europa politicamente deceduta diventa una necessità, ma solo nel senso che porta un chirurgo ad amputare per non compromettere il corpo.  Una cosa necessaria, ma tragica.   
Dirlo però equivale a compiere qualche innominabile empietà e guadagna severe rampogne all'incauto che si azzarda a farlo.

Anche esprimere dubbi sulle modalità di uscita dall'Euro, non sulla necessità di farlo ma solo sulla strategia di attuazione, espone a pepatissimi commenti e dunque il dibattito subisce un singolare, e mortale, appiattimento della dinamica.   
Nel momento in cui ti predisponi a produrre un'azione politica hai bisogno di una certa stabilità dottrinale, ma scoraggiare la dialettica, anche conflittuale, non è mai un buon affare, perlomeno se dichiari di voler coinvolgere tutte le componenti del tuo seguito nell'elaborazione di strategie e programmi, e se manchi di farlo finisce che allontani più gente di quanta ne attiri.

Intanto qui da noi, contemplando l'arretramento delle velleità del governo ellenico, si conclude che le cause della sconfitta risiedono nell'ambiguità pusillanime di Tsipras, dato che ammettere che la Troika non avesse che da tenere i cordoni della borsa ben stretti e la flessibiltà negoziale a zero, sancirebbe la fragilità contrattuale di qualsiasi nazione che si presentasse isolata al confronto, complicando lo scenario rivendicativo.

Infine, in una recrudescenza del ferale motto “tanto peggio, tanto meglio”, si azzardano tesi che avvalorano come preferibile un secco rigetto dei ricatti mitteleuropei, piuttosto che una lenta morte, corroborando tale considerazione alla luce della disperazione di chi non ha più niente da perdere, con una visione inconsciamente, spero, crepuscolare.

Il fatto è che se fosse realmente così non saremmo qui a parlarne e le strade e le montagne sarebbero teatro di una feroce rivolta.   Non è così, non ancora almeno, e precipitare le cose per ottenere una massa critica di disperati non mi sembra un gran servizio, o così avrà pensato Tsipras, io ritengo, nell'operare le sue scelte.

In Grecia si muore di fame e per l'impossibilità di curarsi e questo significa un totale fallimento del nostro modello di cultura e sviluppo, ma a giudicare dal comportamento dei greci e dalle risultanze demoscopiche fin qui raccolte, la fuoriuscita dall'Euro senza un'oculata ed efficace strategia preparatoria non sembra essere una priorità.

Noi dobbiamo uscire dall'Euro perchè quella moneta è un “lusso” che non ci possiamo permettere, ma quello di cui avremmo realmente bisogno sarebbe un Euro con le stesse caratteristiche operative del dollaro, liberamente svalutabile a seconda delle esigenze, e inserito in un contesto federale paritetico di stati di pari rango e con politiche finanziarie, economiche e industriali decise collegialmente, e non da chi è più “uguale di altri”.

Esistono le condizioni, in questo momento, per creare questo contesto?  Certo che no. Metterci allora una pietra sopra e non pensarci più divenendo una delle tante nazioni europee “pret a manger”?
Fate un po' voi. Io sono un anziano, malato per di più, e tra un po' toglierò il disturbo. Dopo sarete voi a grattarvi questa piaga.  Pensateci bene.

venerdì 11 settembre 2015

11 settembre. Data infausta.

11 settembre.  Ricorrenza infausta nella quale gli effetti della "politica estera" statunitense si coagulano con esiti di morte.

Ero meno che ventenne l'11 settembre 1973 (l'altro, e dimenticato, 11/9), quando
nel lontano Cile un golpe foraggiato dagli USA e dagli interessi delle grosse corporations di quel paese depose il Presidente Allende e il suo esperimento socialista.

Tra il Cile e il nostro paese c'erano allora alcuni paralleli, e noi vivemmo per anni sotto la minaccia ed il ricatto costanti di una "soluzione" cinicamente definita "spaghetti in salsa cilena", che compromise ed orientò la dinamica della dialettica politica italiana.

Essere la provincia di un impero di fatto comporta anche questo.

L'11 settembre 2001 ero un padre di famiglia di 47 anni.   Quel giorno ero in ferie. Non vacanza vera, ma solo una serie di incombenze da sbrigare in orario lavorativo.

Nel pomeriggio, quando gli schianti si erano già verificati da alcune ore, entrai in un bar per un caffè. La televisione era accesa, i pochi avventori stranamente silenziosi e con lo sguardo incollato allo schermo, basiti e increduli, mentre la barista sembrava non riuscire a prestarmi sufficiente attenzione.

Guardai lo schermo e ricordo che pensai, sulle prime, che si trattasse di un film catastrofico, ma era invece la cronaca, trasmessa a ciclo continuo, del successo di un attentato costruito con grande dispendio di danaro e di energie.  

Il numero dei morti raggiunse quel giorno quota 2.752 persone!
Il paese dove abito conta 2.596 abitanti!

Quel giorno un paese leggermente più grande di Bornasco sarebbe stato ingoiato in un inferno di fiamme e macerie, per non parlare delle migliaia di decessi dovuti a neoplasie contratte da moltissimi superstiti, venuti a contatto con i materiali cancerogeni dispersi nel crollo delle torri.

Ma non sono solo americani i morti di quell'attentato. Nel numero andrebbero conteggiate anche le vittime di guerre scatenate nominalmente per comminare la "giusta punizione" per quei fatti, in realtà al servizio di ciniche, e miopi, motivazioni geostrategiche che strumentalizzarono i caduti delle torri.

Guerre che sono tuttora in corso, anche se degenerate in scontri endemici tra creature politiche spietate e sanguinarie, nate quale logica conseguenza della miopia statunitense, e le moribonde entità statuali rimaste stritolate dalla perversa logica neoimperiale della grande potenza.

Guerre, infine, che si stanno avvicinando a grandi passi ai nostri territori.  Ma questi territori, nella visione strategica americana, sono la marca esterna, e spendibile, di un impero di fatto, costruito anche per attutire lo scontro.   Mai più un altro 9/11, mai più un convolgimento diretto della popolazione civile americana.

Che le cose accadano altrove e lontano. A casa nostra!

venerdì 4 settembre 2015

Io non c’ero, non son stato, non son mai venuto qui.

L'Agenzia delle Entrate ha pubblicato le risultanze dell'ultima campagna di raccolta del 2 x 1000 dell'imposta sul reddito che ciascun contribuente può destinare, se lo desidera, ad un partito di sua scelta.

Premetto che l'iniziativa, con buona pace di M5S che l'ha criticata, mi sembra un buon
compromesso tra un finanziamento pubblico "coatto", faraonico, opaco e corrisposto su basi alquanto criticabili, dato che venivano "rimborsati" anche partiti nel frattempo defunti, ed un finanziamento esclusivamente privato che favorisce, soprattutto in tempi di "vacche magre" come questi, principalmente chi mostra consonanza con finanziatori dotati di larga autonomia finanziaria.

Quanto sopra in linea generale ed ipotetica ovviamente, dato che al momento il panorama politico italiano è alquanto deludente e ben pochi, a mio parere, meritano il contributo di un elettorato in gran parte tradito e marginalizzato, anche se poi il 2 x 1000 dell'imposta raccolta viene comunque destinato ai partiti, che l'elettore indichi, o meno, una scelta.   Ciò viene fatto ripartendo la somma, non finalizzata, proporzionalmente alle indicazioni espresse positivamente dai contribuenti. 

C'è chi ritiene questo ultimo aspetto né più né meno che una truffa, dato che il suo desiderio sarebbe di non destinare neanche un centesimo ad alcun partito, ma questo presenta alcune controindicazioni non immediatamente rilevabili e che necessitano, per essere riconosciute, di astrarsi dalla situazione che subiamo e fingere di vivere in una democrazia sana e dai processi non bloccati.     Una cosa ardua da figurarsi, date le condizioni, ma vi sono fattispecie, quali la legge elettorale e il tipo e le modalità di finanziamento dei partiti, che dovrebbero essere progettati non in funzione dell'attualità, bensì dei principii  fondanti dei processi funzionali democratici della nazione e della loro salvaguardia.

L'antipolitica e l'astensionismo vengono visti da alcuni, da molti in verità, come elementi consolidati e strutturali, però non è così, non è vero e non è giusto.  Quei due elementi sono una patologia, un'affezione della quale dovremmo liberarci, dalla quale affrancarci per recuperare un ruolo del quale siamo stati privati, anzi scippati, dato il modo nel quale ciò è avvenuto.

Spesso ci dicono che la bassa affluenza alle urne è una caratteristica delle società occidentali "più avanzate", ma avanzate in cosa, di grazia?  Nell'esautoramento del volere popolare principalmente.    Gli USA, che portano avanti grandi interessi particolari spacciandoli quali interessi nazionali (ciò che giova a General Motors giova all'America, sentenziava McNamara, il Ministro della Difesa di JFK), sono una delle nazioni "avanzate" con uno dei più bassi tassi di partecipazione alle tornate elettorali.

Sono anche nazioni dove gruppi sociali ben definiti, che a quelle elezioni vorrebbero partecipare, vengono tenuti lontani dalle urne con escamotage amministrativi (vedi la Florida di Jeb Bush che escluse gran parte della popolazione di colore la quale, votando, avrebbe messo in discussione l'elezione a Presidente del fratello George W).

La ragione principale per la quale siamo così delusi e schifati dei nostri partiti deriva innanzitutto dalla nostra storica propensione ad affidarci a "chiese", laiche o confessionali, e/o ad "uomini della provvidenza" più o meno efficaci e credibili, ma senza mai rivendicare le nostre prerogative di cellule fondamentali del gioco democratico.

Si votava DC o PCI per partito preso, appunto, e si sosteneva la scelta, anche in presenza di contraddizioni, talvolta vistose, perché ciò significava interdire efficacemente il nemico.     Poi, venuta meno la pregiudiziale anticomunista, e ben avviata la deriva socialdemocratica del PCI, si votava, un pochino smarriti, principalmente per antica abitudine, ma una volta espresso il voto nessuno si prendeva la briga di chiedere conto e ragione delle strategie del partito prescelto, e questo ultimo spesso soffocava il dissenso postulando fantasiose "quinte colonne", un metodo che Renzi ha portato a perfetta maturazione tra l'altro.

Altro elemento patogeno è stata la propensione a favorire chi prometteva scorciatoie, o favori, o esenzioni e punire chi, invece, postulava certe scomode, ma coerenti pratiche.
La DC che gonfiava gli organici dell'impiego pubblico, il PSI che "prezzava" gli appalti e garantiva corsie preferenziali, il PCI che, localmente e nelle proprie roccaforti, a un certo punto ha cominciato a comportarsi allo stesso modo, ma con minor chiasso.  

Sempre all'insegna dell'interesse particolare si votava, con significativa variazione della particella pronominale, il partito che "mi" avrebbe favorito meglio e non quello che "ci" avrebbe favorito, ma con una certa e scomoda contropartita civica.

Poi emerse dalle nebbie dell'hinterland milanese quel tal Cavalier Silvio, prodotto emblematico delle contiguità e sinergia tra imprenditoria e politica, che mise la pietra tombale su qualsiasi attitudine al civismo, coprendo sistematicamente di ridicolo chi cercava di attenervisi e delegittimandolo con interessate e mistificanti narrazioni.

Cominciò allora, con la trionfante creatura politica di Berlusconi, mai abbastanza e coerentemente fronteggiata dai "prodotti" decaduti e decadenti del fu PCI, il lungo cammino che ha portato a sistemi elettorali che non tengono in alcun conto le indicazioni del corpo elettorale e, alla fine, anche alla sospensione della sua consultazione, proponendo a ciclo continuo primi ministri opzionati da una Presidenza che da garante della costituzione è divenuta agente di interessi finanziari sovranazionali, mentre il Parlamento ospita compagini mutate, in senso teratogeno, e ben lontane dai percorsi prospettati in sede elettorale.

Dunque non esprimere una scelta esplicita riguardo il 2x1000 non è diverso dal non andare a votare e dalla rinuncia a contestare, pubblicamente, ma soprattutto nelle sedi dei partiti, i programmi politici che non ci aggradano.

La politica procede autonoma e alla faccia nostra perché abbiamo a suo tempo rinunciato a controllarla, limitandoci a chiacchiere da bar e invettive da coda alle Poste.


Ora che ci sarebbe da faticare per riprenderne il controllo non sappiamo più come farlo, oppure siamo stati messi in condizioni così precarie da farci divenire dei veri e propri sudditi.
Dimentichi dei nostri diritti, abbiamo rinunciato a rivendicarli, dunque non ci sentiamo legati ad alcun dovere.    Si sopravvive meglio che si può e chi ne ha la possibilità e lo stomaco, spesso, si accoccola tra le gambe del potente, in attesa delle briciole che cadranno dal suo desco.

Ci piace assai identificare nei partiti e nella classe politica l'origine dei nostri guai, la fonte della nostra disgrazia, ma se questa politica è parassitaria e autoreferenziale, ed è indubitabilmente tale, lo è in primo luogo per colpa nostra.

Si potrà obiettare che molti di loro occupano la loro poltrona ministeriale, o scranno parlamentare, in virtù di un sistema che affida alle segreterie dei partiti la selezione del personale politico, e anche se ciò è vero, lo è ora, ma i politici che hanno messo in opera questo sistema ademocratico sono venuti prima e ce li abbiamo messi noi nelle condizioni di operare, mantenendoli in sella per un ventennio, a dispetto della sempre crescente evidenza del muro contro il quale saremmo andati a sbattere.

Quindi sì, certo, "vi dovete dimettere, tutti a casa", come molti post su FB dichiarano mentre presentano le nefandezze dei nostri politici, ma pochi si prendono la responsabilità di aver contribuito a creare le condizioni di questo sfascio.

Eppure certe formazioni realizzavano importanti risultati elettorali.  Tutti spariti? 
Nessuno che chiede scusa o mostra di aver capito l'errore e di sapere come ovviare?  No, certo.