giovedì 14 novembre 2013

Il Festival dei Diritti a Pavia - 7ª edizione

Come ogni anno il CSV (Centro Servizi Volontariato) di Pavia ha promosso il Festival dei Diritti, giunto alla sua settima edizione e che terminerà il 30 novembre 2013.   Il tema di quest'anno è la "responsabilità", un concetto ampio che il CSV tenta, con successo mi pare, di definire come segue:


Essere responsabili significa impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a se stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. La responsabilità può essere definita come la "possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione".

Molte delle associazioni di volontariato attive nella Provincia di Pavia contribuiscono allo svolgimento del Festival presentando iniziative, promuovendo eventi e declinando il concetto di responsabilità secondo il proprio taglio e la propria attività istituzionale.

Anche l'Associazione Filippo Astori con la quale collaboro da tempo, e di cui sono socio, ha proposto, in data 9/11 presso la Nuova Libreria Il Delfino in Piazza Cavagneria, 10 in Pavia, un evento nel quale il tema della responsabilità è stato declinato così:

Il concetto di responsabilità è assolutamente cruciale e definisce in qualche modo quello che siamo e la cultura di cui siamo espressione.
Contempla il fatto di essere all'interno di un processo e di una comunità, costituisce la camera di compensazione tra diritti e doveri e ci ricorda che la rete che ci relaziona con gli altri è biunivoca. In altre parole il mio diritto a poter fruire di qualcosa deriva dal fatto che qualcuno, da qualche parte, assolva i suoi doveri. L'esercizio armonico e consapevole di questi elementi è quello che definiamo responsabilità

Sono in debito con Stefano Borsani, del PIME di Milano, il quale mi ha
suggerito  l'idea dei medaglioni e della stretta correlazione tra diritti e
doveri.   La povertà dell'aspetto grafico non è a lui ascrivibile.
Se prendiamo le iniziali, identiche, delle due parole, doveri e diritti, quindi una D maiuscola e le mettiamo insieme, disposte a specchio, otteniamo una sorta di medaglione che ci definisce integralmente.
Se noi prendiamo questo medaglione e lo sovrapponiamo parzialmente ad un altro, quindi se prendiamo la nostra persona e la sovrapponiamo ad un'altra, vediamo chiaramente che la D dei nostri diritti si interseca con la D dei doveri di chi ci segue, mentre il contrario avviene con chi ci precede. 
Questo tipo di relazione è una catena lunga 7 miliardi di medaglioni, quindi di persone. Se anche in un solo punto questa catena si interrompe significa che da qualche parte qualcuno non vede rispettati i propri diritti a causa di qualcun altro che non assolve i propri doveri. L'integrità della catena è compromessa e gli effetti di questa discontinuità si ripercuotono, amplificandosi, lungo tutta la sua estensione.

Spesso non ci rendiamo conto di quanto sia lungo ed esteso il filo che ci collega ad altre situazioni e come queste situazioni siano, alla fine, costituite da individualità.
Facciamo un piccolo esempio. Noi tutti ci rechiamo periodicamente presso un supermercato per fare la spesa. Da qualche anno gli orari di apertura dei supermercati sono enormemente dilatati ed anche il numero di giorni di apertura è aumentato molto sensibilmente. Il fatto di poterci recare, alle 21,00 di una domenica qualsiasi, presso il punto vendita xy, e di poter comprare tutto quello che ci serve a prezzi competitivi, è molto comodo e rassicurante. Quanti di noi però si ricordano che tale agibilità è ottenuta sottoponendo i lavoratori di quel supermercato a turni e orari molto spesso disagevoli e che i loro giorni di riposo danzano avanti e indietro lungo la settimana? Le loro famiglie quali ricadute possono avere a seguito di questa libertà d'accesso? Questa libertà la viviamo come acquisita e la consideriamo come una sorta di diritto, ma quanto siamo abituati a considerare che è garantita dal dovere, e da un certo grado di disagio (in alcuni casi di sfruttamento), di qualcun altro?

Ma non è finita qui, una volta entrati nel supermercato ci dirigiamo verso il reparto ortofrutta e ci compriamo un po' di pomodori, rallegrandoci del prezzo molto conveniente, attorno ai 50 centesimi al kg.
Ma questo prezzo al punto vendita presuppone un prezzo al punto raccolta ancora più basso. Che ne è del profitto dell'agricoltore? Quali decisioni deve prendere per non rimetterci? La prima cosa che viene in mente sono le schiere di immigrati (clandestini per lo più) utilizzati come braccianti e che vengono trattati al pari di schiavi. Questi disgraziati sopportano lunghissime giornate di lavoro massacrante per pochi soldi, taglieggiati da "caporali" che si prendono tangenti sulla loro magra paga, rivendono loro cibo, bevande e posti letto di infima qualità ed a prezzi assurdi lasciandoli, alla fine, con pochi spicci e con la prospettiva di pestaggi selvaggi alla minima lamentela. La disponibilità di una manodopera così “conveniente” non sarebbe neanche ipotizzabile se questi immigrati, su cui si scatenano periodicamente campagne di stampa, pubblico ludibrio ed ipocrisie di varia natura, non si trovassero nella condizione di dover emigrare.

Noi abbiamo mungitori Sikh, braccianti romeni, pizzaioli e imbianchini egiziani, ambulanti senegalesi, ogni tipo di etnia e di cultura, tutti appostati in impieghi generalmente subalterni, di basso profilo e retribuzione conseguente.
Molte di queste persone provengono da condizioni di precarietà e povertà, altri sono sfuggiti, con i soli abiti che indossano e talvolta con pochi e miseri effetti personali, da guerre, stragi, pulizie etniche. Situazioni che fanno loro ritenere preferibili i disagi e le umiliazioni di un lungo viaggio e la collocazione precaria all'interno di comunità, come la nostra, che tendono a ritenerli corpi estranei, talvolta pericolosi, sempre alieni.
Tutte cose che, solo una generazione fa, pativamo a nostra volta con i nostri nonni, padri e zii disseminati in mezza Europa, in Australia e nelle Americhe, cosa di cui pare ci siamo dimenticati.

Quanti di noi sanno che tutti i nostri gadget elettronici, cellulari, tablets, computers e lettori mp3 dipendono da un approvvigionamento abbondante e conveniente del cosiddetto coltan, contrazione di columbo-tantalite? Quanti sanno che, per esempio, alcuni dei giacimenti più ricchi sono situati nella Repubblica Democratica del Congo? Quanti sono a conoscenza del fatto che questa, che dovrebbe essere una ricchezza, costituisce invece una maledizione?
Cito quanto dice Wikipedia:
Il valore commerciale del tantalio è molto elevato e, di conseguenza, anche una bassa produzione, come quella congolese, può fornire elevati proventi economici.
Con l'aumento della richiesta mondiale di tantalio, si è fatta particolarmente accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione. Un'area particolarmente interessata è la regione congolese del Kivu (sul confine centro-orientale della Repubblica Democratica del Congo) e i due stati confinanti, Ruanda e Uganda; gli intermediari che trattano la vendita del coltan in questi due paesi si approvvigionerebbero, infatti, dai giacimenti minerari congolesi.

I proventi del commercio semilegale di coltan (così come di altre risorse naturali pregiate) attuato dai movimenti di guerriglia che controllano le province orientali del Congo, alimentano la guerra civile in questi territori. Tuttavia, il fatto che gruppi armati o comunque non rappresentanti società statali e industrie, si impossessino del minerale e lo vendano con grossi introiti ad acquirenti principalmente occidentali od asiatici non costituisce di per sé un reato in nessuno dei tre stati interessati, rendendo più controversa la situazione. All'acquisto di columbo-tantalite congolese si sarebbero interessate, come intermediarie, anche organizzazioni criminali europee ed asiatiche dedite al traffico illegale di armi, che verrebbero scambiate con il minerale.
Si potrebbe obiettare che se sono i congolesi stessi a combattersi tra di loro, con l'entusiastica partecipazione di Ruanda e Burundi, che pure sono reduci da atroci guerre civili, noi, in quanto occidentali, centreremmo poco o niente. Siamo sicuri? Chi rifornisce e foraggia questi gruppi armati? Chi, in ultima analisi ha interesse a che non si costituiscano nella regione forti interessi nazionali organizzati che potrebbero trattare con gli utilizzatori finali del minerale condizioni più vantaggiose per chi lo estrae?

Si potrebbe andare avanti a lungo citando casi del genere, ma non è strettamente necessario. Non si pensi tuttavia che si stia qui, con il dito indice puntato e vibrante di sacra indignazione, a lanciare rimproveri per un cinismo che, spesso, è inconsapevole e deriva da semplice ignoranza.
Quello che si vuole significare è che i torti e le storture sono tanti e diffusi e che spesso sono perpetuati, oltre che dal cinismo e dal tornaconto di grossi interessi costituiti, anche dalla non consapevolezza di noi gente comune, che non ci poniamo il problema di conoscere e comprendere alcuni meccanismi.
Noi non dobbiamo farci cogliere da inutili sensi di colpa e, neanche, coltivare imbarazzanti deliri di onnipotenza. I mali del mondo non sono una nostra personale responsabilità e molto difficilmente potremmo coltivare la speranza di essere, in qualche modo risolutivi, ma dobbiamo sforzarci di superare la nostra ignoranza, di comprendere la relazione tra diritti e doveri individuali e quindi in che cosa consiste la nostra responsabilità, quali sono i limiti che la contraddistinguono e quale importanza e peso questa responsabilità e la consapevolezza che ne consegue, unite a quella di chi ci sta intorno, possono avere.

Uno dei primi passi da compiere in questa direzione consiste nel conoscere le culture e le situazioni, fare in modo che le cose non rimangano a lungo sconosciute e, perciò, minacciose o ben impacchettate dentro una ragnatela di pregiudizi; gli arabi infidi, gli zingari ladri e, tanto per fare un esempio che ci riguarda, gli italiani mafiosi.

Trovare i punti in comune con altre genti e culture significa riscontrare quanto, in fondo, “funzioniamo” allo stesso modo, quanto siano sovrapponibili le motivazioni e gli scopi che ci muovono. Tutti, alla fine, cerchiamo di soddisfare gli stessi identici bisogni fondamentali, nutrirsi, curarsi, crescere i propri figli, assicurare a se stessi, alla famiglia, alla propria comunità un certo grado di benessere ed autosufficienza.

L'Associazione Filippo Astori ha interpretato questa necessità di riconoscimento di se stessi negli altri attraverso uno dei bisogni fondamentali, quello di nutrirsi. La via prescelta è stata la pubblicazione di un ricettario che, operando l'associazione in Tanzania, raccoglie ricette rappresentative di ogni parte dell'Africa.

Si tratta certo di un'iniziativa destinata a raccogliere fondi, ma anche a fornire una “chiave di lettura” di culture lontane, ma che spesso danno risposte sorprendentemente simili alle nostre, oppure che ci possono fornire spunti interessanti da esplorare a nostra volta.

La penisola italiana, così lunga e stretta, e i retaggi culturali di cui siamo portatori, così vari e complessi, dovrebbero renderci particolarmente ricettivi ai contributi esterni. Scoprire poi che, in fondo, un contadino ugandese si nutre praticamente come il suo omologo bergamasco, o veneto, avendo come piatto tradizionale una polenta, o che le innumerevoli pietanze a base di verdura, pur se aromatizzate da spezie per noi inusuali, possono trovare echi presso la nostra tradizione culinaria, non potrà far altro che prendere quelle genti, che spesso sono per noi delle ombre sullo sfondo di qualche reportage o i soggetti di titoli giornalistici variamente inquietanti, e farle diventare delle persone umane che vivono, soffrono ed hanno passioni e reazioni uguali alle nostre.

Nel momento in cui le vediamo come persone, le vediamo anche come portatori di diritti e doveri, proprio come noi. Sono anche loro come quei medaglioni di cui si parlava all'inizio e, se abbiamo un minimo di onestà intellettuale, non possiamo allora fare a meno di rapportarci a loro mediante quel collante potente che è la responsabilità.


Il libro "Ricette africane" si può ordinare:
- scrivendo una mail a info@filippoforever.it
- inviando un sms al 340-0564592

oppure lo si può reperire direttamente presso:
- la Nuova Libreria il Delfino - Piazza Cavagneria 10 - Pavia
- il CSV Pavia - via Bernardo da Pavia 4 - Pavia
La Bottega il Girasole - frazione Chiavica-Frua, Travacò Siccomario (PV)
- La Libreria del Sole - via XX settembre 26 - Lodi