martedì 21 febbraio 2017

Bisognerebbe andare a scuola di povertà per contenere il disastro che la ricchezza sta producendo. (E. Olmi)



Dalla funzione "Accadde oggi" di Facebook emerge un post del 2014, riprodotto nell'immagine, che riconduceva ad una pagina che oggi non è più in linea.

Allora commentai che:

«Questo è un dibattito che non si può affrontare alla leggera e che, a mio parere, avrebbe bisogno prima di tutto di una laicità che nessuno al momento può vantare. Non lo possono fare i sindacati che inquadrano il tutto nella dialettica antagonistica tra lavoratori e padroni, e neanche lo possono fare questi ultimi, che sono stati determinanti nel giustificare le remore sindacali.
Il lavoro flessibile deve essere per forza precario? Non l'ha certo ordinato il dottore, ma rimane pur sempre il fatto che un accordo tra due parti non dovrebbe prescindere dall'equipotenza tra contraenti. In fin dei conti se è vero che il dipendente ha bisogno di un lavoro, anche l'imprenditore ha bisogno di lavoratori. Suona pleonastico, e lo è, ma ci si passa sopra scomodando alibi, e oggettive (e ipocrite) ragioni esterne.
Bisognerebbe intanto riconoscere che se l'imprenditore aspira al conseguimento di adeguati margini (magari reinvestendoli nell'impresa) è nel suo pieno diritto e non andrebbe per questo demonizzato. Ma anche il lavoratore ha diritto a regole stabili, costanza dei dettati contrattuali, condizioni di lavoro dignitose e adeguata rappresentanza. 

Mi si dirà: ma tu privilegi la parte dei lavoratori. Certo, innanzitutto lo sono (lo ero, ora sono un esodato [ora pensionato nonostante gli sforzi di lacrima facile Fornero]) e poi, fuori da ogni comoda ipocrisia, chi tra le due parti impugna (e ha sempre impugnato) il bastone più grosso? E perché mi viene così istintiva l'immagine di una colluttazione?

Già, perché? Nel dibattito sulla ripresa e sul fantomatico job act [ora, come si sa, tragicissima realtà], l'unica richiesta chiara che è emersa proviene dalla parte datoriale e riguarda la minimizzazione del contratto collettivo nazionale a favore di quelli aziendali e, perché no, anche degli accordi individuali che, vanno benissimo in tempi di vacche grasse e agli iperspecializzati, un po' meno alla gran parte degli altri lavoratori e in piena depressione. 

Con la trasparente scusa di voler flessibilizzare e localizzare le condizioni di lavoro chi già gode di una posizione preminente cerca di tenersi tutte le briscole in mano. Quindi e alla fine: il lavoro flessibile deve essere per forza precario? No, ma bisognerebbe dirlo anche agli imprenditori.»

Oggi invece constato che la parte datoriale ha fatto ori, carte, primiera, settebello e un bel pezzo di napola, grazie al fiancheggiamento di un partito che, tradendo il mandato elettorale, si è trasferito, armi e bagagli nel campo nemico (uso la parola consapevolmente).

Il potere contrattuale del lavoratore è compresso in dimensioni infinitesimali, sottoposto com'è alla pressione congiunta di job act, giungla dei contratti atipici, ripresa inesistente e contiguità, quando non frequentazione, di una indigenza che è controllo sociale.

Secondo le parole di Warren Buffet, il terzo uomo più ricco del mondo, la lotta di classe esiste, e l'hanno vinta i ricchi.     La sua constatazione trova nel nostro paese una conferma evidente.         

Noi siamo tecnicamente una democrazia parlamentare, con molte metastasi presidenziali, ma nella nostra dinamica politica manca da molto tempo un elemento fondamentale dell'esercizio sano della democrazia, siamo cioè privi di una opposizione in grado di rappresentare, organizzare e condurre le istanze di chi percorre il lato in ombra della strada.

Non lo fa più, e da tempo, il PD, transitato nel campo liberale turboliberista. 
Non è in grado di farlo la sinistra-sinistra che, di fronte alla svolta storica della caduta del socialismo reale, si è ritratta inorridita dalla necessità di una valutazione critica dell'accaduto, rifugiandosi in una ortodossia priva di progettualità, che stronca sistematicamente ogni elaborazione, e ve ne sono state parecchie.

Ma non lo fa neanche il terzo incomodo, quel M5S che lucra sull'impresentabilità altrui, con grande e giustificata efficacia,  e si dedica alla raccolta del dissenso, ma rimanda ogni definizione di un programma di governo al giorno dopo il conseguimento di una vittoria elettorale ormai abbastanza vicina, senza mai sbilanciarsi troppo e limitandosi a promettere una moralizzazione di massima e poco focalizzata, a quanto pare risolutiva in sé.
Un riscatto sulla fiducia e a data da destinarsi.

Ora il PD è in preda alle convulsioni conseguenti ad una sconfitta mai riconosciuta da chi l'ha propiziata, con una miserabile opposizione interna che ventila scissioni strumentali, straccione e improbabili, dopo aver avallato ogni singola porcata licenziata dalla conduzione renzista.     

La sinistra-sinistra beneficia dell'instabilità piddina, che fornisce una spinta alle vele di un processo di aggregazione iniziato già da tempo, ma che fatica ad uscire dalla dimensione politicista e verticista che ha sempre strozzato sul nascere il dispiegarsi di proposte vitali.    

Attende fiducioso M5S il compiersi del suo vittorioso destino, dopo aver agganciato ogni valutazione critica, e potenzialmente devastante, dell'operato della sindaca Raggi ad un fruttuoso vittimismo, favorito in primis da una stampa schierata e priva di credibilità che ha calcato la mano sulla campagna di delegittimazione della giunta pentastellata fino ad ottenere l'effetto contrario.  

Nel frattempo un popolo intero è ridotto all'angolo da una controrivoluzione liberista trionfante e spietata, senza alcuna prospettiva di riscatto che non sia quella pentastellata, potenziale e tutta da verificare.    Ma di far sentire la propria voce direttamente e senza intermediari non se ne parla proprio.

Anni fa svolgevo alcune considerazioni sul fatto che si può partecipare ad una società in due modi: da cittadino oppure da suddito.   Se sei un cittadino, sei un soggetto conscio dei propri doveri e consapevole dei propri diritti.  Adempi agli uni e pretendi gli altri. Sapendo di avere un ruolo, concorri alla crescita materiale e spirituale della tua comunità e in quest'ultima arrivi a comprendere l'intera umanità. Sei inoltre convinto del valore della solidarietà, per cui ti presti per il bene comune.

Se sei, invece, un suddito non sai di avere diritti, quindi non li reclami. Non conosci doveri, quindi arraffi tutto quello che puoi e strisci per ottenere privilegi dal potente da cui dipendi. Il tuo unico dovere è verso te stesso, perciò vedi gli altri solo in funzione dei tuoi interessi. La tua comunità, al massimo, è ampia quanto la tua famiglia.

Secondo voi quale delle due modalità è più consona alla tavola che ci hanno apparecchiato?