giovedì 26 ottobre 2017

Tra servo e padrone non v'è nessuna amicizia. (Curzio Rufo)





Io sono già in pensione, fortunatamente e a dispetto del ciclone Fornero che mi ha colpito senza travolgermi, ma non posso fare a meno di mettermi nei panni di coloro che, a un passo dalla quiescenza, si ritrovano continuamente spostata in avanti la linea di traguardo dell'agognato ritiro dalla condizione di lavoratore attivo, per di più in un contesto di forte evanescenza dei posti di lavoro che configura un eventuale licenziamento, o chiusura dell'azienda, al pari di una catastrofe dagli esiti fatali.


E' di questi giorni l'annuncio dell'aumento dell'età pensionabile a 67 anni, a seguito dell'incremento dell'aspettativa di vita, un concetto questo ultimo che sembrerebbe perfino banale, ma che credo nasconda un grosso fraintendimento, come emerge chiaramente, per esempio, nella definizione di Speranza di Vita, così come viene descritta da Wikipedia:


Speranza di vita

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il tasso o speranza di vita è un indicatore statistico che esprime il numero medio di anni della vita di un essere vivente a partire da una certa età, all'interno della popolazione indicizzata.

Descrizione

Solitamente l'espressione è usata per indicare il numero medio di anni che ogni neonato ha la probabilità di vivere. Allo stesso modo, molto spesso, senz'altra specificazione, viene riferita implicitamente alla vita umana.
È strettamente correlata alle diverse età: l'allungamento dell'aspettativa di vita alla nascita, ad esempio, può essere la semplice conseguenza della riduzione dei tassi di mortalità infantile, dovuta a migliori condizioni igieniche e sanitarie, senza che vi sia effettivo allungamento nella soglia di vita complessiva delle persone. Questo fatto è spesso all'origine di grossolani fraintendimenti, quando si afferma, in maniera semplicistica e a sproposito, che l'alta speranza di vita di cui gode una certa popolazione ha come conseguenza l'aumento della popolazione anziana (si parla a volte di invecchiamento della popolazione), mentre invece è la semplice conseguenza di bassi tassi di mortalità in età infantile o giovanile o dell'abbassamento dei tassi di mortalità evitabile.
Combinata con l'indice di mortalità infantile, rispecchia lo stato socialeambientale e sanitario in cui vive una popolazione. La speranza di vita, oltre a rappresentare semplicemente un indice demografico, è quindi utile per valutare lo stato di sviluppo di una popolazione.

Dunque l'aspettativa di vita è qualcosa che viene definito da molteplici fattori e non è certo un valore confortevolmente stabile e scolpito nella pietra, trattandosi di un andamento tendenziale che non può prescindere, per quanto ci riguarda, dal fatto che:

  • la qualità dell'assistenza sanitaria è in costante peggioramento;
  • l'incidenza delle patologie croniche non può che aumentare con l'età, elemento strettamente correlato al precedente;
  • le condizioni generali di lavoro sono tali da risultare più usuranti rispetto a solo 10 anni fa;
  • lo stato prevalente di precariato comporta stili e abitudini di vita degradati che hanno grande incidenza sulle condizioni di salute.


In realtà siamo in presenza di un disegno cinico che vuole sistemare le cose scaricando addosso ai peones le esigenze di quell'uno per cento reso soggetto evidente dalla protesta di Occupy Wall Street.
Si abbassano le retribuzioni, dopo aver distrutto lo Statuto dei Lavoratori, e si creano condizioni concorrenziali di accesso ad un'occupazione asfittica, precaria e dequalificata. 

L'aumento dell'età pensionabile serve anche a mantenere al loro posto schiere di giovani impossibilitati a mettere in atto un progetto di vita decente, ragazzi che, una volta divenuti a loro volta anziani, non potranno accedere a nessun trattamento pensionistico dignitoso; non quello pubblico, che i nostri carnefici stanno facendo morire d'inedia oggi, ma neanche quello privato, che avrebbe bisogno di versamenti costanti, del tutto improponibili in un quadro permanente di retribuzioni ridicole e lunghi periodi di disoccupazione.

È così che si uccide un paese, che si sopprime l'anelito vitale di una comunità.
Il liberismo, l'oligarchia che lo esercita draconianamente, i suoi artefici e i suoi picciotti non sono diversi da un virus letale, che colonizza l'organismo ospite fino ad ucciderlo.    La differenza è che un virus compie la sua opera omicida a scopi riproduttivi, per poi trasferirsi altrove; è spietato, ma opera con una logica comprensibile, ancorché inconsapevole.

Il liberismo non ha un altrove nel quale trasferirsi, ma non ha neanche la sensazione di segare il ramo su cui siede, perché gli oligarchi che lo agiscono sanno che, da sempre, chi siede in cima alla piramide sociale casca sempre in piedi, fino a poco tempo fa perlomeno.

Si perché finora non si era mai presentato il problema dell'esaurimento delle risorse, della fine delle frontiere da penetrare, dei mercati vergini da colonizzare.   L'infinito di cui appropriarsi non è quella tavola senza contorni che immaginavano i teorici del liberismo.  Esso è invece una sfera che è infinita solo nel senso che non ha confini invalicabili e che, una volta percorsa interamente la sua superficie, ripropone i campi fumanti e ingombri di rovine che si erano già violentati.

Secondo una figura retorica che utilizzo spesso, il modello liberista non è quello sostenibile dell'agricoltore, che ara, semina e raccoglie, ben conscio di trovarsi in un ciclo ripetibile, ma solo a patto di non stressare le risorse, è invece lo stato mentale del raider che scende nella valle, asporta l'asportabile, consuma sul posto quello che riesce a consumare e distrugge tutto il resto, per poi passare nella valle di fianco.
Il ciclo economico liberista è essenzialmente entropico e miope e parte dal presupposto che una volta esaurito il mercato ed emerse le contraddizioni assolutamente logiche che conseguono, basti spostarsi di lato e ricominciare da capo.


Un tempo, e anche oggi nei paesi definiti emergenti, quel modello iniquamente classista al servizio di una ristretta aristocrazia, magari temperato da una limitata e strettamente controllata mobilità sociale, può aver avuto una funzione propulsiva, pur con costi umani e morali rovinosi, ma oggi che si sbatte il muso contro i limiti di un ambiente sfibrato rimane il fatto incontrovertibile che di frontiere, se si eccettuano lo spazio ed il fondo del mare, ambedue inavvicinabili per via dei costi che comporterebbe il loro sfruttamento, non ce ne sono più.

Ecco dunque che il liberismo, il cui ciclo è diventato sempre più corto e inefficiente come è sotto gli occhi di tutti, produce la sua metastasi finanziaria, un contesto dove la produzione di ricchezza diviene un concetto virtuale che si basa su costrutti artificiosi, non diversi dalla pretesa di sollevarsi tirandosi per i lacci delle scarpe.

In assenza di una prevalente dimensione produttiva dell'economia, il concetto classico di valore aggiunto, ovvero la misura dell'incremento di valore che si verifica nell'ambito della produzione e distribuzione di beni e servizi finali grazie all'intervento dei fattori produttivi (capitale e lavoro) a partire da beni e risorse primarie iniziali, cede il passo alla rendita finanziaria conseguente a speculazioni tenute in piedi da espedienti sempre più azzardati e pronti a implodere sotto il peso delle proprie contraddizioni e dell'avventurismo irresponsabile di chi li concepisce e mette in atto.

In attesa dell'esplosione della prossima bolla speculativa, magari di quella definitiva dei derivati (valore nozionale stimato dei contratti in essere pari a circa 550mila miliardi di dollari, ovvero otto volte il Pil mondiale), le quote di ricchezza che i potenti comodamente assisi in cima alla piramide sociale si assicurano sono tutte a nostre spese, e non potrebbe essere diversamente dato che l'economia è un modello funzionale cosiddetto a somma zero, nel quale il benessere di qualcuno non può che essere a spese di qualcun altro.

Ma il fatto è che in un quadro di depauperamento delle risorse e della ricchezza generale se uno degli attori non intende arretrare nei suoi stili di vita ciò non può che avvenire a spese degli altri, i quali non solo non godono di alcun margine di miglioramento, ma si vedono costantemente defraudati di ricchezza, diritti ed opportunità.

Ricordo con amarezza gli anni della mia infanzia, nei quali il futuro era un concetto indissolubilmente legato al progresso, morale e materiale, quando era dato per scontato che ogni generazione avrebbe migliorato i propri standard per il semplice fatto di spiccare il salto dalle braccia di chi l'aveva preceduta.


Fu senz'altro un'illusione.  Non esiste nulla che possa crescere indefinitamente, ma non è legge di natura il doversi sottomettere per forza all'arbitrio di chi ha fatto dell'egoismo un valore primario e, dopotutto, sarebbe bene renderci conto il prima possibile che stiamo distruggendo l'ambiente che ci ospita, e che urge trovare modelli di vita differenti, più equilibrati e maggiormente solidali.

E' arrivato il momento di reagire, di fermare una corsa dissennata che ci sta portando al suicidio, ma non sarà una cosa che potrà avvenire a seguito di pacate discussioni.     Chi siede in cima non intende rinunciare a nulla, si tiene stretto tutto quello che ha e ci guarda con un ghigno di derisione, sputandoci in testa i noccioli dei dolci frutti che ci vengono negati.

Hanno costruito un contesto ferocemente classista, noi, gli iloti, da una parte e loro, gli spartiati, dall'altra.     Il titolo di questo testo non è scelto a caso.