martedì 29 marzo 2022

Ama tutti, credi a pochi e non far del male a nessuno. [W. Shakespeare]

Quando la Yugoslavia si dissolse, comprendemmo tutti che gli infoibamenti, ed altre atrocità a danno degli avversari, non furono una esclusiva del comunismo titino, bensì il modo abituale , non solo  balcanico, di "sistemare" le cose.

Ricordo che le cronache riportavano quotidianamente ogni genere di belluina nefandezza, ogni giorno peggiore e con un'agghiacciante trasversalità che non assolveva nessuna delle parti.   E nessuno infatti si salvava: bosniaci, serbi, croati, tutti quanti sfogavano un odio che era il distillato di generazioni su generazioni di prevaricazioni e faide nelle quali nessuno faceva sconti e, anzi, applicava puntualmente interessi usurai che rendevano le vendette indicibilmente atroci.

Un episodio che mi rimase impresso, nelle prime settimane di quella che divenne una lunga e atroce guerra, riportava ciò che successe in un villaggio serbo in territorio croato.
Un mattino in quell'abitato si avventurò un furgone con a bordo alcuni poliziotti croati.  Il mezzo venne prontamente circondato da una folla inferocita che disarmò i poliziotti e li immobilizzò con del fil di ferro intorno a polsi e caviglie, dopodiché una vecchina apparentemente innocua, a vederla in foto avrebbe potuto essere mia nonna, con la sua abituale tintura viola pallido sulla capigliatura cotonata, li evirò tutti con una corda di pianoforte.  Gli altri abitanti subito dopo cavarono loro gli occhi e poi li freddarono tutti, gettandoli in un dirupo.

Quella vecchina, riportava l'articolo de L'Espresso dal quale venni a conoscenza del fatto, da bambina aveva vissuto un dramma tremendo, quando una banda di Ustascia croati, collaborazionisti dell'occupante italiano, calò sulla fattoria della sua famiglia, trucidò il padre, gli zii ed i fratelli, sospettati di essere partigiani, violentò la mamma e le zie e la gettò in un pozzo, per non sentire le sue grida.

La banda poi se ne andò e la bimba rimase tre giorni in quel pozzo, fino a quando qualcuno, scampato al rastrellamento, non la estrasse.   
Per diversi anni perse l'uso della parola e non si riprese mai del tutto.

Quei poliziotti croati dunque pagarono il prezzo delle indegnità commesse dai loro padri.    Il fuoco vendicativo covò per decenni sotto l'apparente tranquillità dell'assetto federale instauratosi nel dopoguerra, pronto a rinfocolarsi alla prima occasione utile.

Probabilmente quegli ustascia croati, a loro volta, nel loro passato avevano subito qualche altra indegnità da parte di altri serbi con, a loro volta, vecchi conti da saldare con croati o bosniaci o chiunque altro, e via così, in una catena infinita che perpetua un odio implacabile, un retaggio tossico che si rinnova e si amplifica ad ogni generazione, seguendo una "contabilità" sanguinosa e bestiale.

Quella era la Yugoslavia, ma quel meccanismo non è una specificità esclusivamente balcanica, e infatti il mondo è pieno di teatri ove si rappresenta l'abiezione umana, di catene di morte che avrebbero bisogno di sforzi sovraumani per essere spezzate.

E' per questo che bisognerebbe sempre operare per la pace, anche a costo di compromessi talvolta difficili da digerire, perché il sangue versato è un consigliere crudele ed insaziabile; non risolve nulla e perpetua il male, amplificandolo.

Le catene di odio si esauriscono solo quando una delle parti viene annichilita, lasciando il vincitore profondamente segnato, alienato nelle sue qualità umane e mutilato nella sfera emotiva.  
E' peraltro piuttosto raro che una delle parti scompaia del tutto.  Rimane sempre qualche superstite che non avrà pace fino a quando qualcuno non pagherà per tutto ciò che ha dovuto subire, e chi pagherà in genere avrà il solo torto di essere della tribù sbagliata, pur non avendo avuto modo di partecipare ai peccati per i quali viene punito.

In questi giorni noi vediamo due popoli, che hanno più punti di contatto che differenze, impegnati a costruire le premesse per un'altra faida destinata a perpetuarsi.
Quando il conflitto conoscerà una sosta è probabile che si sarà già generato un altro "libro mastro" inesauribile, sul quale verranno annotate transazioni di sangue che non conosceranno mai un punto di bilancio, perché nessuno vuole veramente trovarlo quel punto, e le voci di chi invece lo cercherà verranno soverchiate dalle urla delle marionette manovrate da pupari che stanno fronteggiandosi cinicamente sulla pelle di gente che vorrebbe solo vivere in pace.

E' per questo che le grida d'incitamento che provengono da chi ritiene, peraltro sbagliando, di non rischiare nulla mi disgustano profondamente.
Non c'è niente di peggio del sepolcro imbiancato che si ammanta di una virtù che non gli appartiene.


lunedì 7 marzo 2022

In genere la gente litiga perché non sa discutere. (GK Chesterton)

Non sono più un ragazzino, i prossimi saranno 68, quindi ho maturato prospettive che mi consentono di apprezzare linee evolutive (o involutive?) nel modo di rapportarsi, e devo dire che non sono molto soddisfatto delle osservazioni che posso trarre.

Un tempo amavo molto discutere. Trovavo fosse un'attività stimolante e formativa, un modo per avere contatto con gli altri, per imparare e comprendere meglio il mondo circostante ed i processi che formavano la mia vita e le mie esperienze.

Amavo discutere anche con chi aveva opinioni diametralmente opposte alle mie, purché aperto al confronto, perché lo si faceva sempre cercando di sostanziare le proprie tesi costruendo un castello logico da confrontare col proprio interlocutore.

Questo non vuol dire che non lo si facesse con animosità, se le circostanze lo richiedevano, ma non di rado la discussione propiziava il suo più bel regalo: la possibilità di chiarire meglio il proprio pensiero, focalizzato dalle necessità espositive, e la sottolineatura di aspetti prima non individuati, emersi grazie proprio al confronto, che talvolta poteva perfino portarti a rivedere le tue stesse convinzioni, anche quelle più profonde, o quantomeno conducevano ad un loro affinamento. Anche le discussioni politiche, in genere le più infervorate, venivano condotte con rigore e senza mai rinunciare a uno standard di coerenza decente, pure al netto di aspetti propagandistici non sempre del tutto inappuntabili, ed io mi ci gettavo con entusiasmo, dato che ero stato cresciuto con il gusto del confronto. Solo in due casi mi ritraevo dalle discussioni: quando i temi erano o religiosi o sportivi. Nel primo caso non ero interessato a confrontarmi con verità rivelate e non negoziabili, cristallizzate in epoche precedenti, molto prosaiche negli scopi ultimi, a dispetto della spiritualità rivendicata, e convenientemente indifferenti alla logica.

Nel secondo, grazie soprattutto alla preminenza del tifo calcistico, mi trovavo estremamente a disagio con la "disonestà intellettuale" indispensabile al sostenimento dell'animosità verbale, direi necessaria e strenuamente perseguita, che tutti pareva ritenessero naturale e inevitabile, essendo il risultato finale perseguito l'annichilimento e l'umiliazione dell'avversario. Ne diffidavo per motivi "estetici", per la mancanza di rigore e la speciosità imperanti nelle confutazioni, ma anche per l'assenza di rispetto nei confronti dell'interlocutore e per il dispiego di una serietà cipigliosa e una sguaiataggine aggressiva espresse con un'intensità del tutto eccessiva rispetto al motivo del contendere. Oggi, come allora, quando esprimo questa mia disistima per la cifra delle discussioni sportive mi viene ribattuto, anche da vecchi amici e con una certa sufficienza, che se non sono pervaso dalla "passione" non posso capire. Esatto, e sono molto felice di non essere attrezzato per capirlo. Ritenevo, e ritengo tuttora, che il tifo sia una manifestazione tipica del concetto sottostante alla formula del "panem et circenses", un modo di veicolare capziosamente un disagio diffuso verso uno sfogo improduttivo e lontano dai reali responsabili delle situazioni che quel disagio lo hanno originato. E' inoltre il veicolo attraverso il quale lo scarso, anzi inesistente, rigore espositivo diventa lo standard dei confronti tra le persone, e questo, in tutta evidenza, è ciò che è accaduto e che abbiamo sotto agli occhi da molto tempo a questa parte. Oggi discutere mi è il più delle volte penoso, e la doppietta COVID-Ucraina mi ha lasciato boccheggiante sul pavimento, stordito per l'assoluta preponderanza dello standard "calcistico" che ha preso piede in ogni confronto dialettico. Il disprezzo per l'interlocutore emerge chiaramente dagli insulti espressi senza ritegno. L'assertività regna incontrastata, sicuro indice del timore di venire destabilizzati da dubbi che terremoterebbero certezze non adeguatamente meditate, costringendo a faticose elaborazioni, allo sviluppo di una capacità di analisi negletta e repressa. Il pensiero unico l'ha avuta quasi definitivamente vinta e si assiste al definitivo trionfo di un conformismo tossico e distruttivo. L'unico concetto chiaro è che il chiodo che sporge è il primo a venire ribattuto, ragione per la quale si resta tutti ben dentro ad un sentire codificato, che peraltro non ti mette al riparo dagli attacchi di chi ha scelto una "squadra" differente, o dai trollatori compulsivi che azzannano alla gola a prescindere, per quietare i propri demoni. Discutere continua a piacermi, ma riesco a farlo sempre meno frequentemente. Il più delle volte si tratta di farsi coprire di insulti. Le conclusioni che devo trarne mi sono insopportabili. Come abbiamo potuto lasciare che si arrivasse a questo?