mercoledì 18 marzo 2020

La gestione del panico ed altre cose

Userò nomi di fantasia.   

Eufrasia, la mia compagna di allora.
Evaristo, il mio "migliore amico" (notare le virgolette).
Ginevra, l'amica in crisi matrimoniale.

Tanti anni fa feci un'escursione sopra Cogne con Eufrasia, Evaristo e Ginevra che era venuta con noi da sola, perché in momentanea rotta col marito.
Anche io non ero messo benissimo nel rapporto con Eufrasia, ma non sapevo ancora quanto, e del resto il "marito" è sempre l'ultimo ad accorgersi che qualcosa non va.

La stagione era molto avanzata, faceva un discreto fresco e gli stambecchi avevano già abbandonato le quote più elevate, stazionando placidamente di traverso al sentiero, preoccupando non poco Ginevra, che osservava quei bestioni con molta diffidenza.

Non avevamo tenuto nel debito conto che le giornate si erano molto accorciate e che, tranne noi, in giro non si vedeva nessuno, quando invece in alta stagione c'erano dei momenti nei quali sembrava di stare sotto la Galleria Vittorio Emanuele all'ora dell'aperitivo.

Sta di fatto che ci eravamo attardati ad ammirare lo splendido panorama del Ghiacciaio della Tribolazione e ci trovavamo ancora a più di un'ora dal luogo ove avevamo parcheggiato la macchina.    Non eravamo sicuri di riuscire ad arrivarci prima che il buio ci cogliesse ancora distanti e su un sentiero ripido e pieno di sassi e spuntoni. 

Eufrasia aveva, ed ha tuttora presumo,  una vera predilezione, costantemente e tenacemente negata, per il melodramma.   Gli elementi che stavano guastando il nostro rapporto, e quanto lo avrei appreso entro breve, venivano in gran parte dal fatto che riteneva la mia naturale cautela niente più che un tratto di pusillanimità e indecisione, che faceva di me un "compagno di vita inadatto".

Continuava a creare presupposti critici e punti di svolta nella nostra vita, tutti radicali e spesso drammatici, invariabilmente pretestuosi  e non di rado assai teorici, essendo opzioni di vita che non aveva alcuna intenzione di attivare, ma che architettava per mettermi alla prova, sfidandomi ad affrontarli e a risolverli senza alcun tentennamento, manco fossimo in un reality.

Io d'altra parte ai tempi, grazie alla costruzione di un rilevante senso di inadeguatezza indotto da un padre piuttosto manipolatore, non ero molto sicuro di me stesso, e tutto quel lavorìo mi instillava qualche dubbio.  
Ero giovane e anche un po' stupido.

Compresi dopo che mi stavo semplicemente difendendo, e che se fossi stato appena un poco più fiducioso in me, avrei potuto mettere le cose in chiaro, ponendo fine a tutto quell'onanismo emozionale.   Comunque Eufrasia era arrivata alla soglia del disprezzo, e si stava apprestando a varcarla perfino con una certa malcelata soddisfazione, dato che sentiva che i suoi timori erano prossimi ad essere "confermati".

Comunque sia quel sabato pomeriggio non eravamo certo in pericolo di vita, ma neanche messi benissimo.   La montagna non ama essere trattata con superficialità, e spesso impartisce rudi lezioni.    Sta di fatto che avevamo un problema da risolvere e non potevamo certo chiamare un taxi che ci togliesse dagli impicci.

Eufrasia, con una voce da stoica pioniera sull'orlo di una crisi di nervi, cominciò ad esprimere ad alta voce la sua preoccupazione per i guai nei quali ci saremmo trovati di lì a non molto, immaginandosi, con qualcosa di più di una morbosa soddisfazione, tutti i rischi che tra poco avremmo immancabilmente corso.         

Credo che, assieme ai deliziosi brividi che stava provando si immaginasse di uscire, in qualche modo, con qualcosa da raccontare con uno sguardo "fisso a 5.000 iarde", come dicono i marines emersi fortunosamente illesi dalla battaglia di Pusan.

Io, ormai avvezzo allo stile eufrasiano, non prestai all'inizio molta attenzione, ma poi mi resi conto che Ginevra aveva smesso di preoccuparsi degli stambecchi e che stava andando in iperventilazione, mentre Evaristo, con la voce grave di chi stava accedendo al patibolo, dipingeva con grande verosimiglianza i traumi che ci saremmo procurati camminando su un terreno sconnesso, al buio, in forte pendenza e con il gelo che sarebbe calato su di noi, stroncando vite che avevano ancora molto da dare.

Non lo feci coscientemente, ma ruppi la malsana immobilità e mi incamminai con passo lungo e ben disteso, incitando gli altri a muoversi e sottolineando il fatto che avevamo ancora una discreta possibilità di fare al buio solo l'ultimo tratto pianeggiante e piuttosto ben livellato, e parlando con un tono colloquiale  di cosa avremmo mangiato in albergo.

In breve mi trovai condurre il piccolo gruppo, sopravanzando tutti di una ventina di metri e inducendo i miei compagni ad allungare il passo per raggiungermi.
Eufrasia in particolare allungò il passo più di tutti, e tra il meravigliato e lo stizzoso mi chiese che cosa stavo facendo.

Rispondendole mi precipitò la consapevolezza piena del mio pensiero, fino a quel punto latente, e le dissi:
"siamo in una situazione che possiamo risolvere solo noi stessi.    Stare qui a piangere non ci aiuta e può anche essere che non ce la faremo a rientrare in tempo, ma se non ci diamo una svegliata, è del tutto sicuro che i nostri peggiori timori si avvereranno, dunque muoviamoci e facciamo in modo che nessuno rimugini troppo sulle proprie paure".

Lei mi guardò prima meravigliata e poi discretamente incazzata e mi disse: 

"ah, il piccolo Duce.  Si fa dunque quello che dici tu e basta. Bella democrazia".  
Non ho mai compreso veramente se si incazzò per la mia botta decisionista o perché stavo smentendo il pessimo giudizio che aveva di me, avendo già irrevocabilmente deciso che ero un irresoluto privo di attributi.
Avrei dovuto capire in quel preciso momento che era finita tra di noi, ma come ho detto ero giovane e stupido.

Alla fine rientrammo in albergo in tempo e senza problemi e gustammo un'ottima polenta con umido di cacciagione.
Ginevra si dimenticò subito tutto e cominciò a pensare a come ricucire, al ritorno, il suo incagliato matrimonio.
Evaristo fece di tutto per dimenticare di aver traballato moralmente.
Eufrasia non me la perdonò, e di lì a poco, come nella sceneggiatura di una pessima telenovela, mi diede il benservito, andandosene con Evaristo, il mio ex "migliore amico", e a distanza di anni direi che mi è andata di lusso.

Quello che mi è rimasto di quella esperienza è che il panico è un animale infido, che ti azzanna le chiappe e poi non ti molla.   Devi rintuzzarlo subito e anche se, per farlo, ti ritrovi a fare l'equivalente di respirare in un sacchetto, come si fa nelle crisi di iperventilazione.

E' per questo che in questi pandemici giorni mi sento di intervenire appena sento una voce che si incrina.

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