giovedì 21 maggio 2020

Fa un etto e mezzo, lascio?

Si moltiplicano i post sugli aumenti di prezzo praticati dai negozianti che hanno appena riaperto i loro esercizi dopo la lunga traversata del deserto pandemico, e dato che oggi sono in modalità “qui una volta erano tutti prati”, mi è tornata in mente una discussione con un cliente della banca nella quale ho lavorato a lungo, nel... millennio scorso.

Allora prestavo servizio in un'agenzia situata in Piazzale Dateo, a Milano, una zona sul limite tra i quartieri popolari ed operai del Calvairate e quelli "signorili" a ridosso della circonvallazione interna.

La clientela, ai tempi, era relativamente diversificata e al suo interno commercianti, piccoli professionisti, rappresentanti e qualche benestante senza occupazione immediatamente riconoscibile, ma con cospicue rendite finanziarie, facevano la parte del leone.

Ero ancora un “assistente alla clientela”, dizione convenientemente approssimativa che significava tutto e niente, e mi trovai a discutere con un cliente, un florido grossista di attrezzature per laboratori alimentari, pasticcerie e simili, del fatto che avevamo negato una linea di credito alla figlia, che aveva a sua volta un conto presso l’agenzia, anche se il suo negozio di abbigliamento sportivo era in via Paolo Sarpi, dall’altra parte della città.

Via Paolo Sarpi, per chi non conosce Milano è, assieme a Via Canonica, il cuore di un quartiere cinese che esiste perlomeno dai tempi di mio nonno, molto prima che scoppiasse la Grande Guerra, anche se la consistenza della comunità cinese è stata, fino agli inizi degli anni ’80 molto più contenuta di quanto non sia ora.

Ho dei ricordi, da bambino, di signori cinesi che non spiccicavano una parola d'italiano, ma avevano una padronanza del dialetto meneghino che avrebbe suscitato l'invidia perfino di Carlo Porta.

Comunque sia, ai tempi la presenza cinese cominciava ad ispessirsi, ma quella zona rimaneva ancora un quartiere della vecchia Milano e nessuno avrebbe ipotizzato che, il decennio successivo, le insegne di via Sarpi sarebbero state tutte scritte in cantonese o mandarino, e che un italiano avrebbe potuto percorrerla tutta, ed è bella lunga, col rischio di non capire nessuno e di non farsi capire da alcuno.

Però la spietata politica dei prezzi era già allora la strategia principale praticata dai commercianti cinesi, e la signora che aveva richiesto la linea di credito era in affanno, perché in una zona che andava configurandosi come una specie di discount commerciale, lei, perseguendo margini elevati a prescindere, praticava prezzi d'affezione per articoli di qualità medio alta, col risultato di dare una severa “rasoiata” ai suoi introiti. 

Fu per quello, per la contrazione degli affari derivata da un'errata valutazione della sua presenza commerciale, che richiese l'erogazione di un fido di cassa, per galleggiare in attesa... di cosa? Probabilmente che i cinesi sparissero dalla circolazione. 

Quel fido però le fu negato in quanto i dati finanziari e reddituali che poté fornire, ulteriormente depressi, io credo, da una certa “disinvoltura” fiscale, erano troppo scarsi per rendere sostenibile l'operazione.

Il padre, che a differenza della signora, era un uomo d'affari e non un “bottegaio”, se capite la differenza che sto sottolineando, non si sognò neanche di contestare la mancata erogazione. La sua opinione, anzi, fu che la figlia “non aveva capito nulla”. Secondo lui, infatti, avrebbe dovuto abbassare i prezzi e scegliere una linea di prodotti più conveniente, giocandosela più sul versante “gusto”, che certo non era un punto di forza cinese. 

Quello che la signora fece, invece, fu di alzare i prezzi, per cercare di rifarsi su quelli che ancora entravano nel negozio, con il risultato di andare in default piuttosto alla svelta, senz'altro molto prima che il quartiere venisse completamente colonizzato dagli operatori orientali.

La frequentazione dell'ambiente dei commercianti al dettaglio, in quanto dipendente bancario, non mi ha aiutato granché ad avere rispetto per le loro capacità, perché ho visto, con una frequenza decisamente elevata, un'attitudine all'avventurismo, che è cosa diversa dal saper assumere un rischio, desolatamente preponderante.

La vita del commerciante, di suo, non è proprio tutta rose e fiori. Quando le cose girano bene è possibile fare ottimi affari, ma è quando le “vacche sono magre” che emergono i difetti strutturali.
E' allora, infatti, che le condizioni marginali che erano bastate a tenerti sul mercato in tempi migliori spariscono ed evidenziano che ti andava bene perché era tutta in discesa, non per merito tuo.

Quando i tempi si incupiscono il cliente, che il più delle volte non se la cava meglio del negoziante, tuttaltro, è lesto ad andare dove gli conviene di più, e pensare di aumentare il prezzo di vendita per rifarsi delle perdite significa solo avvicinare il momento in cui si portano i libri in tribunale.

Il mondo degli affari è brutalmente darwiniano, e l'imprenditore, piccolo o grande che sia, e il bottegaio è un piccolo imprenditore, è convinto che vada bene così... fino a quando non gli va storta.

E' allora, quando perde la sua posizione all'apice della catena alimentare, che chiede, anzi pretende, aiuti cospicui e possibilmente a fondo perduto, assegnando colpe a tutti e rivendicando la titolarità esclusiva delle sfighe del mondo.

Eppure in genere si tratta degli stessi soggetti che sostenevano che i sindacati, con  quella che definivano, con disgustato disprezzo, la loro mentalità da "pasti gratis", fossero la rovina dell'Italia.







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