domenica 25 novembre 2018

Ci sono così tanti modi terribili e intimi di subire una violenza. (Roxane Gay)

Dalla voce dedicata di Wikipedia:

"La Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è una ricorrenza istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica in quel giorno."

Qualcuno obietta che l'istituzione di questa ricorrenza sia un esercizio di mera ipocrisia, un sistema per mettersi in pace la coscienza senza mettersi in realtà in discussione, ma io credo che costoro si sbaglino.

L'estrema insidiosità dell'abito mentale che rende la violenza sulle donne un fatto normale, sta tutto nella sua sedimentazione in un tipo di cultura, anzi in culture, al plurale, che si rifiutano di riconoscere alla donna uno status pieno di persona umana, ponendola in una situazione intermedia tra un animale e un essere umano.

Se l’asserzione che precede vi sembra eccessiva vi invito ad esaminare le miserabili giustificazioni che danno, delle loro prevaricazioni, spesso omicide, coloro che trattano le donne negando loro la dignità di soggetti destinatari di pieni diritti, costantemente subalterne alle loro anguste visioni e sottoposte a crudeli ritorsioni ogni qualvolta dimostrino anche solo una larvata tendenza a non stare al loro posto.

Violenza sulle donne non è solo la percossa o, nei casi peggiori, il femminicidio.   Violenza è anche la molto più comune collocazione della femmina su un piano sociale subalterno che viene definito naturale, al fine di stroncare sul nascere qualsiasi aspettativa di autodeterminazione e di autoaffermazione, in uno schema che non è per nulla dissimile da quello che costituisce lo schema funzionale del razzismo nella sua forma canonica.

Si tratta però della manifestazione di una malattia sociale più insidiosa e virulenta del razzismo, in quanto colpisce la metà del genere umano basandosi su un elemento di differenza meno evidente del colore della pelle, ovvero la differenza di genere.

Si tratta di un criterio di discriminazione che, non basandosi su elementi esteriori abbastanza esotici, facilita la sua liquidazione quale fattore normale e implicito, giustificando di conseguenza le costruzioni ideologiche delle culture che relegano la donna in un recinto di subalternità abbastanza miserabile da giustificare ogni pratica di violenza, fisica ma soprattutto morale, che la colpisce.

Come il razzismo però, il sessismo serve egregiamente per veicolare le frustrazioni e l’aggressività di chi non sa affrontare la propria inadeguatezza e che finisce, come spesso accade, per colpire non chi è abbastanza potente da ridurlo in abiezione, bensì chi non è in grado di reagire o di intimidirlo abbastanza da fargli temere le conseguenze del suo agire.

Non si tratta solo di forza fisica.     E’ la statuizione di un rapporto subalterno a prescindere a dare all’aguzzino la forza per prevalere e a negare alla vittima l’impulso a difendersi.  

Stiamo parlando di condizionamento culturale, ovvero di qualcosa che non si può abolire per decreto e che la semplice volontà non riuscirà a domare rapidamente.
Per questo l’istituzione di una ricorrenza, come quella della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, non è una semplice formalità, ma deve essere accompagnata, per essere efficace, da una costante vigilanza e da un’altrettanto costante volontà di riconoscere e neutralizzare gli elementi mentali e comportamentali che creano i presupposti per la perpetuazione di quella violenza.

Non è facile.   Molti uomini neanche si accorgono di essere portatori di una cultura di sopraffazione, dunque non riconoscono i comportamenti, anche minimi, che rendono difficoltoso il suo contrasto e, se è per questo, anche molte donne sono indotte a condividere i presupposti del sistema che le tiene in soggezione.

Sarà forse per questo che un termine come femminicidio è stato così duramente osteggiato, anche da donne.      Riconoscere la specificità di una tipologia di omicidio è evidentemente troppo insidioso per chi vuole perpetuare questa antica malattia sociale;   significa che dobbiamo perseverare nel delineare sempre più precisamente i connotati del problema.

Ho scritto tutto quanto precede, dando piena espressione al mio sentire più intimo, eppure non sono esente da colpe.      Il condizionamento cui tutti siamo soggetti non dà tregua ad alcuno.  Nessuno è esente dall’accusa di essere portatore di comportamenti che costituiscono il brodo di coltura del fenomeno della discriminazione nei confronti della donna e delle conseguenze che ne derivano.

Tracce della subalternità a quella visione sono ovunque, e sono vissute come normali e scontate.      La visione di cui stiamo parlando si è affermata e consolidata moltissimo tempo fa e non basterà una ricorrenza per neutralizzarla, però quella ricorrenza, insieme ad altre e ad una maggiore consapevolezza, tra cui la coscienza che ci attende un compito arduo e di lunga durata, sono il passo necessario e indispensabile per correggere il problema e intraprendere il lungo cammino che ci attende.

Il sessismo, come il razzismo, ma anche come l’omofobia, è un condizionamento culturale precoce e instillato con grande determinazione, che viene inoculato, con malizia, cinismo e consapevolezza in tutti noi fin dalla più tenera età, quando siamo particolarmente indifesi, per poterlo poi contrabbandare come istinto, e dunque imprescindibile e inaggirabile, ma non lo è per nulla.

Siamo stati addestrati alla misoginia, non vi è nulla di naturale nel disprezzo che nutriamo verso la donna. 


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