mercoledì 1 marzo 2017

La fede si sposta. La gente comincia a credere nel dio e finisce per credere nella struttura. (Terry Pratchett)




In questo momento di recrudescenza desolante di un integralismo religioso che travolge i singoli per affermare le proprie verità, rivelate e non negoziabili, che calpesta ogni possibile declinazione della carità cristiana per esercitare un sistema di controllo sociale che è, prima di tutto, sistema di potere temporale, riemerge un ricordo della mia infanzia e prima adolescenza.

Per desiderio espresso di mia madre, e contro il parere risoluto, ma perdente, di mio padre, ho ricevuto una completa educazione cattolica, con annesso percorso sacramentale d’ordinanza e pure un’esperienza da chierichetto, brevissima perché mio padre ottenne che perlomeno questo, dopo solo una messa, mi fosse risparmiato.
Frequentai chiesa e oratorio con spirito fiducioso, come fanno i bambini, e senza rendermi conto dell’orgia di conformismo nella quale mi stavo rivoltolando.

Da un certo punto in avanti però cominciai provare un certo disagio che solo in parte poteva provenire dalla contrarietà di mio padre, inflessibile ma pochissimo manifestata, dato che si limitava a non partecipare alle fasi del mio percorso formativo.
Ricordo che nei giorni della prima comunione e della cresima, mia e di mia sorella, mentre il resto della famiglia era in chiesa lui era di norma in un bar vicino a giocare a flipper, con grandissimo scorno di mia madre e di mia zia.

Il mio disagio era di tipo esistenziale e oscuro, date le scarse capacità di razionalizzazione di un ragazzino. C’era qualcosa che non girava e che mi causava un malessere sottile, che montava costantemente e mi rendeva timoroso e insoddisfatto.
Ci misi molto ad inquadrare quel disagio, e quando lo feci, in maniera provvisoria e non ben definita, presi una decisione che fu poco volitiva e molto difensiva: smisi di frequentare chiesa e oratorio, e non partecipai più al rito della messa.

Avevo solo tredici anni, di lì a poco ne avrei compiuti quattordici, ed ero confuso, ma quando incontrai per strada, un paio di mesi dopo il mio allontanamento, il sacerdote che si occupava dell’oratorio (allora le vocazioni non erano in crisi ed un parroco poteva anche avere diversi preti a coadiuvarlo), alla sua domanda sul perché della mia scomparsa io riuscii a rispondergli che non capivo perché avrei dovuto adorare un dio d’amore infinito per la semplice paura delle conseguenze nel caso non l’avessi fatto.

Non fu una risposta formulata proprio in questi termini concisi e polemici ovviamente, ma il senso era quello, e si fece strada tra il timore di qualche maestosa ed immediata punizione divina e la penosa consapevolezza della mia risibile forza contrattuale, per così dire, nei confronti di un adulto, e pure ministro di culto. Non arretrai però.

Non originalissima fu la sua risposta. Mi chiese chi m’avesse messo in testa quelle idee. Evidentemente il diritto d’indottrinamento era l’unica ipotesi possibile, che peraltro prevedeva un monopolio di fatto in favore di santa madre chiesa.

Solo più tardi, e a conclusione di un percorso piuttosto complesso, ho potuto distinguere tra l’impedimento tecnico principale alla professione di fede, ovvero l’assenza di una convinzione, ai miei occhi irrazionale, dell’esistenza di una divinità di qualsiasi tipo, ed il riconoscimento della dimensione manipolativa di un sistema di potere che si avvale di elementi spirituali per l’implementazione di uno strumento temporale di governo delle coscienze.

In questi giorni la tragica vicenda di DJ FABO, al secolo Fabiano Antoniani, riporta in primo piano tutti gli elementi contraddittori di una fede che, strutturata su principi di amore universale e incondizionato, si abbandona, per bocca dei suoi “difensori” più intransigenti, alla più miserabile mancanza di rispetto e di comprensione per chi soffre.

Alcuni presunti campioni della fede e della virtù, personaggi pubblici e già ben conosciuti per le loro opinioni, si sono scatenati in giudizi morali violenti e privi della benché minima traccia di umana comprensione. Ben lontani da quell'amore puro e disinteressato che dovremmo nutrire per i nostri simili, soprattutto quelli più sfortunati e in difficoltà, sono riusciti solo a dimostrare la distanza siderale tra valori professati e pratica quotidiana.

Io non sono un esperto di citazioni tratte dalle sacre scritture, ma credo che da qualche parte il figlio di quel dio cui io non riesco a credere, dica:
chi afferma di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre.

Forse per un miscredente come me la cosa non è molto impegnativa, ma per chi ha il dono della fede quella citazione dovrebbe essere piuttosto vincolante. Non mi sembra che la cosa si verifichi e mi sento di dire che già a quattordici anni avessi tutti gli elementi per pensarlo.

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