domenica 14 febbraio 2016

Chi semina vento, raccoglie tempesta, o la fa raccogliere a chi si è fidato.

Ho lavorato a lungo in un Istituto bancario che pur non esente da critiche, per quello che ho potuto riscontrare nella prima parte della mia vita lavorativa, ha mantenuto un'attività assolutamente canonica, con comportamenti completamente assimilabili ad un'operatività tradizionale, fatta di adeguate proporzioni tra raccolta e impieghi.

Quella banca inoltre, pur diffusa su tutto il territorio nazionale, manteneva nel nome e nella rete di sportelli un legame preferenziale con una regione in particolare, ove costituiva una delle più rilevanti attività economiche, con tutto quello che ciò comportava in termini sociali e dunque con implicazioni che andavano un po' oltre la mission di una banca.

Non sempre e non tutto è filato senza scosse.   La politica si è spesso infilata nella gestione (nel CdA sedevano anche dirigenti regionali) ed una voragine nel bilancio venne colmata, prima che io arrivassi, ricorrendo al fondo pensione dei dipendenti, che collaborarono, un po' per salvare il posto di lavoro, un po' perché il senso di appartenenza era veramente forte.
Comunque, in linea di massima, la banca operava, se fuori da influenze politiche, con criteri prudenziali e nell'ottica di una remunerazione adeguata, ma non estrema, per evitare scompensi.

Poi è cominciata la stagione delle grandi fusioni bancarie e, appena prima di venire conferiti ad uno di questi costituendi gruppi, mi sono trovato a fruire di un corso (in realtà la presentazione di un prodotto finanziario) durante il quale mi sentii dire che i proventi della banca dovevano cominciare a provenire principalmente dall'intermediazione di prodotti mobiliari.
La cosa mi colpì e mi indusse a pensare che qualche equilibrio si era rotto e cominciai a nutrire dubbi circa i punti di riferimento che mi ero andato costruendo.    Se il cliente depositante viene visto principalmente come potenziale sottoscrittore la funzione stessa della banca muta in maniera drammatica, e non solo nel suo ruolo sociale.

Maggiori ragioni di preoccupazione mi vennero quando, entrati a far parte del grande gruppo, mi accorsi che venivano erogati mutui fondiari per importi talvolta superiori al valore peritato e a favore di soggetti dalle capacità reddituali ondivaghe, segnatamente liberi professionisti, alcuni dei quali si trovavano nella condizione estremamente provvisoria di un extracomunitario, ovviamente con permessi di soggiorno la cui validità era una frazione del periodo di ammortamento, e con redditi appena sufficienti a coprire la rata mensile.

Se solo cinque anni prima qualcuno si fosse azzardato a proporre un'operazione così avventata sarebbe stato frustato nel salone di cassa di fronte ai colleghi, poi appeso al portone d'ingresso e, infine, cacciato con ignominia.     Non sono riuscito a capacitarmi di un cambio così improvviso e radicale del paradigma fino a quando non ho realizzato che le banche non si tenevano più "in casa" il rischio, preferendo cartolarizzarlo, ovvero cederlo a società finanziarie che poi lo utilizzavano quale materia prima per l'emissione di derivati variamente esoterici.

E' evidente che se non devi più rispondere del tuo operato, e le conseguenze della tua dabbenaggine non comportano più alcuna conseguenza a tuo carico, ogni cautela e pratica virtuosa del credito non ha più alcun bisogno di essere perseguita, ed allora cominci a produrre una "tossicità" sistemica che si accumula con quella prodotta da altri soggetti, fino a creare i presupposti per devastanti implosioni.

Operando poi nel ramo corporate ho potuto verificare che, a fronte dell'arroganza vessatoria che le banche praticano nei confronti delle PMI, vi è una certa tendenza, man mano che le dimensione del cliente salgono, ad erogare somme rilevanti, magari in pool, per finanziare operazioni il cui rientro è semplicemente non preventivabile. Come non pensare che le ragioni retrostanti non siano di natura estranea a quelle del credito?

L'ingresso in uno dei più grandi istituti bancari del paese mi ha infine messo a contatto con l'espressione più ferale di tutte, secondo me, quella che è alla base di tutte le storture.
Nella nostra nuova “casa” ho sentito ripetere, come un mantra ossessivo, le parole fatali: “remunerazione dell'azionista". E questa remunerazione, tra l'altro, tendeva a esprimersi per percentuali a due cifre. Questo in un contesto dove il tasso di remunerazione dei depositi non si avvicinava neanche al mezzo punto.

Un bancario dovrebbe ben sapere che un rendimento elevato corrisponde ad un investimento rischioso e che dunque, per ottenere il risultato voluto, il tasso di "disinvoltura" e di proposizione di finanza creativa tendeva ad essere elevato.
Tutto bene, visto che il capitale di rischio va remunerato? Mah, non so. Dato che quel capitale non era degli azionisti, ma dei depositanti e che il frutto andava ai primi e il "magro" ai secondi.

Quando operi avendo come orizzonte temporale la prossima "trimestrale" tu non ti comporti più come un contadino, che lavora in un ciclo che si ripete e lo sostenta fino a quando se ne prende cura, ma cominci a ragionare come un lanzichenecco che scende dal valico e si appropria di tutto quello che vede.     Asporta l'asportabile, consuma tutto il resto e, se non lo può consumare lo rivende a quello cui l'ha rubato, o lo distrugge. Travolge, sequestra e stupra, e poi va altrove per ricominciare tutto da capo, un altrove che però non esiste più. 

Se devo remunerare l'azionista con tassi a due cifre o con i guadagni sulle quote azionarie in costante fermento mi ritrovo fatalmente a operare nel breve. Dunque non importa se sto costruendo il disastro prossimo venturo, se non soddisfo l'obiettivo io non sono più funzionale e vengo espulso.

Ora si fa un gran parlare degli scompensi del mondo bancario, della fragilità di certi istituti, di crediti inesigibili, incagliati, di contenziosi decotti e di eccessiva disinvoltura strategica e commerciale.
Improvvisamente ci si accorge, per esempio, che la montagna di mutui edilizi erogati a imprese che si sono arenate a seguito della crisi non sono più garantiti da terreni e costruzioni, spesso incomplete, i cui parametri di valore e commerciabilità si sono ridotti ad una frazione di quelli originari.

Ma non è colpa di un destino cinico e beffardo. La testa nel cappio i favolosi manager super premiati e favolosamente stipendiati ce l'hanno messa non a ragion veduta, ma sperando che dio gliela mandasse buona, abbagliati , come erano, da incentivazioni faraoniche abbastanza grosse da far dimenticare ogni prudenza.

Così ora ci si ritrova coricati su di un letto di spine, però i glutei sforacchiati non sono certo quelli dei wonder boy della “remunerazione dell'azionista”, bensì quelli dei dipendenti costantemente assoggettati a campagne di esodi incentivati, dei correntisti/obbligazionisti chiamati a colmare i buchi, della clientela che si è ritrovata stritolata dalla stretta creditizia, privata della liquidità necessaria, da una parte, a finanziare l'attività, e dall'altra a provvedere al rientro dei finanziamenti a suo tempo erogati e poi frettolosamente revocati.

No, questo disastro è tutto ciò che si vuole, tranne una calamità inaspettata.

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