Ho
discusso con mia figlia (23 anni – studentessa) del futuro suo e
dei suoi coetanei.
Non
ho molti riscontri, al di fuori di lei, con la generazione che si
affaccia, come si dice, alla vita. Non ne ho
molti perché, innanzitutto, le mie frequentazioni abituali avvengono
in ambiti scarsamente frequentati da giovani.
Quando
lavoravo, grazie al blocco delle assunzioni vigente da lunga pezza, i
miei “giovani” colleghi partivano dai 35 anni, e non erano
neanche numerosi.
Ora
che sono in mobilità e che vivo in un paesello che, per dire, non ha
neanche una piazza, un luogo di aggregazione anche spicciola, posso
toccare con mano cosa significhi crescita zero. I giovani sono
pochi e, come è tradizione, non scalpitano per interagire con un
anziano rompiballe pronto, come ritengono, ad elargire perle di
saggezza non richieste. Non mi sono chiuso in un mondo
isolato, ho interessi e li coltivo, ma le occasioni di contatto
rimangono limitate.
Quando
mi capita di parlare con gli amici di mia figlia, mi rendo conto di
venire ascoltato con cortesia, qualche volta li stupisco con
posizioni quantomeno attente ai loro punti di vista, ma percepisco la
loro sensazione di essere "altrove" rispetto a me. Niente di che.
Ricordo benissimo quanto, a mia volta e in anni oramai remoti,
ritenessi aliene le sensibilità che venivano manifestate dalle
persone più anziane.
Scarseggiando
i riscontri diretti, cerco di compensare con la lettura di saggi ed
articoli di giornale e con l'ascolto di trasmissioni televisive e
radiofoniche. Sia gli uni che le altre, però, sospetto siano un
po' troppo mediate per rappresentare adeguatamente il pensiero
giovanile. Va un po' meglio con la frequentazione del web dove,
tuttavia, mi scontro con la mia estraneità a certi linguaggi.
Nessuno ha detto che dovesse essere facile.
Ho
già avuto modo di dire che il mondo che questi ragazzi devono
imparare ad affrontare è diverso da quello della mia gioventù.
Diverse le aspettative, gli scenari e, soprattutto, le potenzialità.
Le ricette che noi possiamo suggerire non sono necessariamente
valide. Noi però possiamo fornire testimonianza e credo che
questa debba venire recepita ed elaborata.
Molte
cose sono cambiate o sono inedite, ma spesso sono anche talmente
vecchie da “sembrare” nuove, per cessata frequentazione. E', questo, il maggior successo del marketing politico mistificatorio operato dal berlusconismo.
Prendiamo, per dire, la polemica sull'art. 18. Secondo mia figlia
questa norma, impedendo i licenziamenti in caso di ristrutturazioni
del ciclo produttivo (maggiore efficienza o migliori processi
possono generare esuberi) ingessa il mondo del lavoro e comprime
la dinamica delle assunzioni. Questa considerazione è, mi risulta,
abbastanza condivisa anche da giovani genericamente orientati al
progressismo.
Posso anche concordare, in linea puramente teorica.
Per usare un'espressione cara agli economisti liberisti, in un "mondo
perfetto" una maggiore flessibilità dovrebbe andare a vantaggio di
tutti. Naturalmente il mondo in cui viviamo non è per niente
perfetto.
Mi
si dice che il fenomeno della precarietà si è generato nel tentativo di
superamento dell'art. 18 addebitandone, dunque, la responsabilità a
quest'ultimo ed alla mentalità “conservatrice” del sindacato.
Io, invece, chiedo: non è che il precariato è la concezione
tendenziale di rapporto di lavoro così come la concepisce una classe
imprenditoriale che predilige mani libere e rifugge da qualsiasi responsabilità? Il sindacato, come fenomeno, è storicamente
legato al contrasto dello sfruttamento dei lavoratori da parte della
classe padronale. Se il sindacato è conservatore, allora
Marchionne – che vuole riportare l'orologio dei rapporti
industriali agli inizi del Novecento – come può essere definito?
Quello che intendo dire ai ragazzi è questo: se si ritiene di dover intervenire su fattori nevralgici come, appunto, l'art. 18 bisognerebbe pretendere sempre che tutti si assumessero la loro parte di compiti. Certo se si aspetta la vigilia della catastrofe, diventa facile declinare l'equità alla maniera di Monti.
Ragazzi, ascoltate la nostra testimonianza. Avete gli strumenti per elaborarla e farne buon uso. Però, per piacere, evitate i nostri errori. Del resto anche questi sono una forma di testimonianza.
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