lunedì 28 gennaio 2019

All'armi, brava gente!

Ecco qua. Si trattava solo di aspettare.
Il tintinnare di sciabole si è presentato puntualmente alla porta.   Ne ho notizia dal quotidiano Libero, che io difficilmente consulto, dopo opportuna ricerca e grazie alla segnalazione di un'amica.

Non voglio crocifiggere il Generale Santo. E' un soldato, e come tale ci si deve aspettare che privilegi soluzioni militari.

Oddio, ci sarebbe da dire che al suo livello la dimensione politica e diplomatica di qualsiasi intervento assume, o dovrebbe assumere, un'importanza pari, se non superiore, a quella esclusivamente armata, ma forse l'alto ufficiale appartiene a quella categoria di professionisti della difesa insofferente ai bizantinismi di una politica definita programmaticamente imbelle e inconcludente.

La ricetta? Semplice. Un bel blocco navale.
Dice: ma è tecnicamente un atto di guerra, e ci sarebbe il piccolo particolare dei vincoli costituzionali. Risposta: non vi piace? Potremmo chiamarlo interdizione marittima. Il generale evidentemente intende far tesoro delle esperienze maturate in Afghanistan, teatro nel quale ha comandato la missione NATO, altra nostra avventura militare vestita con panni opportunamente tagliati per aggirare l'art. 11 della Costituzione, soprattutto nella parte che afferma come l'Italia ripudi la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Leggetevi l'articolo. Il Generale di Corpo d'Armata Vincenzo Santo propone un atto di guerra, con tanto di intervento armato fuori dei nostri confini in una nazione priva di un governo internazionalmente e unanimemente riconosciuto, e lo propone fuori dall'ambito di qualsivoglia organizzazione internazionale, tipo ONU, NATO o UE. Il tutto non per risolvere il problema umanitario, che rimarrebbe intatto, con i suoi luoghi di origine di un'umanità brutalizzata e costretta alla fuga, e con le motivazioni geopolitiche che ne costituiscono le premesse, strettamente collegate ai livelli di benessere occidentali, immutabilmente attive. No, quel fenomeno rimarrebbe intatto. Si tratterebbe di andar giù pesanti per cinturare i confini marittimi meridionali del paese, per interrompere l'afflusso di disgraziati e nascondere sotto ad un tappeto, situato altrove, il problema clandestini. Che importa se, fino a cinque minuti fa, abbiamo sputtanato la Francia per il suo improvvido e proditorio intervento in Libia, non differente da quello che propone il Generale, che rese quel disgraziato paese una sorta di terra di nessuno in mano a signori della guerra e a banditi di ogni tipo e taglia? Che ci frega se una missione neocoloniale italiana, nei termini proposti dall'alto ufficiale, andrebbe a costituire il brodo di coltura, appetitoso e nutriente, per una ripresa dell'integralismo islamico alle porte di casa? Che ce ne cala se la dimensione stessa dell'esodo biblico che interessa nazioni funestate da guerre, mattanze, povertà e sottosviluppo endemico, rende ridicola ogni pretesa di arginarne la manifestazione, a meno di non cercare di incidere efficacemente sulle cause che lo generano? Niente, non ce ne frega nulla! Qui noi abbiamo la preziosa opportunità di far vedere che c'abbiamo le palle, che ci meritiamo un posto al tavolo dei grandi che governano il mondo, e un bel mucchio di lucrose commesse alle aziende del settore difesa. E il conto lo presenteremo ai negri, che poi non è vero manco questo, dato che è anche grazie ad avventure come quella proposta dal Generale Santo che molti dei gommoni che tanto ci angustiano sono stati riempiti.

sabato 26 gennaio 2019

Quando la speculazione avrà fatto del suo peggio, due più due farà ancora quattro. (Samuel Johnson)


In risposta ad un amico e collega che è intervenuto in una discussione, ho scritto un commento che ora vorrei depositare qui, in una forma autonoma.

Io, nella vita, avrei dovuto fare altro che lavorare per 36 anni in una banca. Il mio dequalificatissimo diploma è di maturità tecnica industriale, e avrei dovuto operare nel campo della meccanica.
Invece ho lavorato quale monachello di uno degli ordini minori della grande chiesa del denaro anche se, al suo interno, per circa la metà del tempo, e nella parte centrale della mia carriera, quella che più mi piacque e che mi diede più soddisfazioni (solo personali), mi sono occupato di vari aspetti dell'informatica, delle telecomunicazioni e anche di formazione.

Fui propriamente bancario all'inizio del percorso, da peone di un ufficio posizioni conti correnti, quando mi immersi negli aspetti più operativi e, apparentemente, di basso livello del lavoro bancario.

Dico apparentemente perché, ai tempi e grazie al quasi inesistente supporto di un centro elettronico ancora distante e basato su schede perforate, la tenuta contabile dei conti correnti, la gestione dei quadri valute e dei portafogli effetti, con tutta la complessa attività relativa a pagamenti, ritiri e proroghe, consentiva di avere una solida conoscenza dei meccanismi alla base del lavoro bancario e del funzionamento di fidi, esposizioni contabili, disponibilità e saldi.
Una cosa che poi colleghi più giovani, assunti quando certi processi vennero completamente automatizzati, non riuscirono mai a padroneggiare, perdendoci molto in consapevolezza e capacità di comprendere veramente la natura del lavoro che erano chiamati a svolgere.

Tornai ad essere un vero bancario nella parte finale del percorso, prima quale assistente alla clientela, con lo sgraditissimo compito di proporre investimenti e strumenti finanziari dei quali diffidavo profondamente (infatti ebbi valutazioni pessime), e poi divenendo analista fidi, assistente nel settore corporate e, infine, gestore imprese, con un certa soddisfazione, perlomeno fino a quando, comprati dalla grande banca, fui obbligato a lavorare in modo tale da richiedere io stesso di venir demansionato nuovamente ad assistente, dato che per me il cliente è da servire e non da usare.

Devo forse al fatto di non essere né ragioniere né laureato in economia l'ingenua convinzione iniziale, poi azzerata dall'esperienza, che la borsa valori fosse realmente il posto nel quale investitori e imprenditori si incontravano con reciproco vantaggio, per mettere in comunicazione la disponibilità finanziaria con la produzione di beni e servizi.
In realtà è il posto nel quale gente con molti soldi, o molto appetito e non necessariamente facoltosa, va a scommettere, come in un casinò qualsiasi, ma con la speranza/presunzione/convinzione di farlo con minore aleatorietà.

La sostanza oggettiva della finanza, intesa come disciplina economica che studia i processi e le scelte di investimento e finanziamento, è sempre stata slegata dalla realtà produttiva delle attività umane, traendo da queste, al massimo, i presupposti iniziali, ma divenendo immediatamente autonoma.

La finanza scommette tanto sul successo quanto sul fallimento delle imprese, anzi finisce che i guadagni più grossi ed immediati li consegue su ciò che deraglia più che su quello che costruisce positivamente valore aggiunto.

La fase crepuscolare del capitalismo, quella che stiamo vivendo, caratterizzata da mercati maturi (anzi scaduti), risorse in esaurimento e margini in contrazione non può che stimolare la metastasi finanziaria e incautamente speculativa, anche perché la visione prospettica del capitalista da manuale raramente si spinge oltre la prossima assemblea degli azionisti, e solo per i più lungimiranti quello è l'orizzonte, per tutti gli altri, la gran parte, si arriva alla semestrale, o anche meno.

Cosa gliene cala se tutte le sue ingegnose invenzioni, il suo costante sollevarsi per i lacci delle scarpe, costruiscono il disastro prossimo venturo, se l'effetto cumulativo dei suoi dissennati scherzetti è la più convincente dimostrazione del concetto canonico di entropia?

Nulla! Non gliene cala nulla. Conciona continuamente sull'inesistenza di pasti gratis e poi si infila in tasca fette di roastbeef dal vassoio del ristorante.

Il pensiero liberista ha impiegato molto tempo e risorse per darsi un supporto teorico, ma alla fine si tratta solo di scommettere, e se si riesce farlo in modo sporco tanto di guadagnato.



martedì 1 gennaio 2019

Qualcuno era comunista

Oggi, primo giorno del 2019, mi capita sotto gli occhi un vecchio video di Giorgio Gaber, uno spezzone di un suo famoso show del 1991, Il Teatro Canzone.   Si tratta del magistrale monologo che conosciamo sotto il titolo di Qualcuno Era Comunista.


Si tratta di un testo straordinariamente lucido e fortemente anticipatore di un processo che sarebbe divenuto molto più chiaro di lì a qualche anno, con la dissoluzione dell'entità partitica, e non solo, comunista nel nostro paese, dopo la caduta del muro e la mancata elaborazione del lutto che ne conseguì, insieme all'incapacità di razionalizzare il fallimento di un esperimento politico non nella sua componente ideale e analitica, tuttora valida, bensì della sua implementazione sul piano pratico.

Oggi in molti si chiedono come hanno potuto, così in tanti, soprattutto tra gli operai, passare dal votare comunista a rivolgere il proprio consenso alla Lega, ovvero alla forma tardiva di un fascismo postmoderno, xenofobo, classista e populista, e la risposta la possiamo ravvisare nei primi tre quarti di quel monologo.

Il pezzo, infatti, prende le mosse dalle imbarazzate risposte di un grigio e piccolo benpensante ben inserito in un quieto parterre di piccoli vincenti, di officianti di un ordine costituito autoperpetuante e sospettoso di ogni minima increspatura del piccolo e tranquillo lago ove galleggia la barchetta su cui trovano rifugio e alloggio.

Il nostro piccolo e ben inserito servo viene portato, grazie a domande dirette, che noi conosciamo solo perché l'interrogato le rieccheggia nel vano tentativo di prendere tempo, ad ammettere che si, è vero, in un tempo lontano lui fu comunista, ma si tratta di un errore veniale, ampiamente giustificato dalle circostanze che comincia ad elencare.

Un elenco inizialmente ridicolo e grottesco, venato di luoghi comuni e di presunte cause oggettive prontamente ricusabili, salvo poi, da un certo punto in avanti, cominciare a diventare sempre più stringenti, verosimili ed ideali, non così facilmente mistificabili, atte a definire impietosamente la dimensione del tradimento ideale ed esistenziale dell'interrogato.

Quelli erano tempi nei quali un pentito di quel tipo lo dovevi andare a cercare nella parte alta della piramide sociale, oggi, nella Grande Depressione 2.0, lo trovi alla base di quella stessa piramide, incarognito dal tradimento di cui si sente vittima.

E' da tempo che penso che il grande partito comunista fu tale, ovvero grande, anche perché una parte non piccola della sua base non era realmente comunista, però riconosceva in quel partito la capacità di rappresentare il mezzo per vedere presidiate e tutelate gran parte delle sue istanze.
Detto più crudamente, un fetta piuttosto consistente di quei diversamente comunisti stavano col PCI solo perché era uno dei cani più grossi del canile, e si adattavano ai comportamenti e all'araldica richiesti solo per convenienza.

Sparita la potenza di quel partito, anzi sparito il partito stesso, sostituito da una sua pallida imitazione, per di più connivente col nemico di classe, non poteva che sparire anche la professione di fede politica, dunque perché stupirsi se una parte consistente di loro è passata, armi e bagagli, alla Lega di Sua Ferocità Salvini, oppure alle rancorose rivendicazioni grilliane, peraltro prive di sostanza e di conseguenze logiche, come l'impietosa cronaca sta a dimostrare quotidianamente?

Il monologo si conclude con grande mestizia, perché delinea, e questo avveniva ventotto anni fa, una sconfitta la cui dimensione ci appare oggi nella sua interezza.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. 
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice, solo se lo erano anche gli altri. 
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. 
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. 
Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una.  
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita. 
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. 
E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra, il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. 
Due miserie in un corpo solo.

La differenza è che mentre il personaggio interpretato da Gaber prova un moto di rimpianto e anche un senso di vergogna per le strade che ha imboccato, raccontandosi le menzogne che gli servivano per quietare una coscienza tradita,
i suoi epigoni del XXI secolo hanno fatto un salto della barricata completo, e se anche ricordano una passata convenienza a schierarsi con il defunto PCI è solo per rivendicare di essere stati ingannati.

Verrà anche il momento per puntare le proprie carte su un nuovo cavallo, quando anche la Lega, e il suo cobbligato grilliano, andranno a sbattere.

Forse aveva ragione Flaiano, quando diceva che gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore.  Un tempo ritenevo questo aforisma un distillato di qualunquismo, ma pare proprio che mi sbagliassi.

C'è però un elemento che mi sostiene e induce in me un pur piccolo sentimento di aspettativa.    Le vaste masse che sostennero il vecchio PCI non sono tutte confluite nei due partiti che sostengono l'attuale governo, e neanche nel sempre più esangue PD, per non parlare dei pesi piuma che popolano la litigiosa galassia dell'estrema sinistra.

Un quarto dell'elettorato italiano non si reca più alle urne, e non è possibile arruolare tutta quella gente nell'esercito storicamente minuscolo del disinteresse.

Sto parlando di più di 13 milioni di persone prive di rappresentanza politica e che non intendono collaborare al gioco al massacro della classe politica attualmente in sella.

Lì dentro ci sono tutti quelli che si ritrovano nella parte finale del monologo, che non hanno mai tratto alcun vantaggio personale dalla cosa e che non hanno ragione alcuna per vergognarsi di essere stati comunisti, principalmente perché lo sono ancora, anche se si chiedono cosa significhi esserlo oggi.



P.S.  Alcuni di voi ricevono via mail questi piccoli testi che pubblico sul blog.

Oggi, per la prima volta, la procedura sventaglierà ai diversi indirizzi questo articolo, e uno di questo messaggi non verrà mai letto, perché la destinataria ci ha lasciati il 27 dicembre dell'anno appena conclusosi.
La mia carissima amica Roberta, dall'intelligenza pronta e vivace e con la quale discutevo così tanto e con così tanto piacere, è stata stroncata da quello che viene definito un male incurabile.

Se ne è andata mantenendo una serenità invidiabile, favorita dal suo sentire buddista.
Mi mancheranno molto il suo acume ed il suo senso dell'umorismo.
Ciao Roby. Se le cose fossero logiche avresti dovuto presenziare tu alla mia cerimonia funebre.