martedì 1 gennaio 2019

Qualcuno era comunista

Oggi, primo giorno del 2019, mi capita sotto gli occhi un vecchio video di Giorgio Gaber, uno spezzone di un suo famoso show del 1991, Il Teatro Canzone.   Si tratta del magistrale monologo che conosciamo sotto il titolo di Qualcuno Era Comunista.


Si tratta di un testo straordinariamente lucido e fortemente anticipatore di un processo che sarebbe divenuto molto più chiaro di lì a qualche anno, con la dissoluzione dell'entità partitica, e non solo, comunista nel nostro paese, dopo la caduta del muro e la mancata elaborazione del lutto che ne conseguì, insieme all'incapacità di razionalizzare il fallimento di un esperimento politico non nella sua componente ideale e analitica, tuttora valida, bensì della sua implementazione sul piano pratico.

Oggi in molti si chiedono come hanno potuto, così in tanti, soprattutto tra gli operai, passare dal votare comunista a rivolgere il proprio consenso alla Lega, ovvero alla forma tardiva di un fascismo postmoderno, xenofobo, classista e populista, e la risposta la possiamo ravvisare nei primi tre quarti di quel monologo.

Il pezzo, infatti, prende le mosse dalle imbarazzate risposte di un grigio e piccolo benpensante ben inserito in un quieto parterre di piccoli vincenti, di officianti di un ordine costituito autoperpetuante e sospettoso di ogni minima increspatura del piccolo e tranquillo lago ove galleggia la barchetta su cui trovano rifugio e alloggio.

Il nostro piccolo e ben inserito servo viene portato, grazie a domande dirette, che noi conosciamo solo perché l'interrogato le rieccheggia nel vano tentativo di prendere tempo, ad ammettere che si, è vero, in un tempo lontano lui fu comunista, ma si tratta di un errore veniale, ampiamente giustificato dalle circostanze che comincia ad elencare.

Un elenco inizialmente ridicolo e grottesco, venato di luoghi comuni e di presunte cause oggettive prontamente ricusabili, salvo poi, da un certo punto in avanti, cominciare a diventare sempre più stringenti, verosimili ed ideali, non così facilmente mistificabili, atte a definire impietosamente la dimensione del tradimento ideale ed esistenziale dell'interrogato.

Quelli erano tempi nei quali un pentito di quel tipo lo dovevi andare a cercare nella parte alta della piramide sociale, oggi, nella Grande Depressione 2.0, lo trovi alla base di quella stessa piramide, incarognito dal tradimento di cui si sente vittima.

E' da tempo che penso che il grande partito comunista fu tale, ovvero grande, anche perché una parte non piccola della sua base non era realmente comunista, però riconosceva in quel partito la capacità di rappresentare il mezzo per vedere presidiate e tutelate gran parte delle sue istanze.
Detto più crudamente, un fetta piuttosto consistente di quei diversamente comunisti stavano col PCI solo perché era uno dei cani più grossi del canile, e si adattavano ai comportamenti e all'araldica richiesti solo per convenienza.

Sparita la potenza di quel partito, anzi sparito il partito stesso, sostituito da una sua pallida imitazione, per di più connivente col nemico di classe, non poteva che sparire anche la professione di fede politica, dunque perché stupirsi se una parte consistente di loro è passata, armi e bagagli, alla Lega di Sua Ferocità Salvini, oppure alle rancorose rivendicazioni grilliane, peraltro prive di sostanza e di conseguenze logiche, come l'impietosa cronaca sta a dimostrare quotidianamente?

Il monologo si conclude con grande mestizia, perché delinea, e questo avveniva ventotto anni fa, una sconfitta la cui dimensione ci appare oggi nella sua interezza.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. 
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice, solo se lo erano anche gli altri. 
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. 
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. 
Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una.  
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita. 
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. 
E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra, il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. 
Due miserie in un corpo solo.

La differenza è che mentre il personaggio interpretato da Gaber prova un moto di rimpianto e anche un senso di vergogna per le strade che ha imboccato, raccontandosi le menzogne che gli servivano per quietare una coscienza tradita,
i suoi epigoni del XXI secolo hanno fatto un salto della barricata completo, e se anche ricordano una passata convenienza a schierarsi con il defunto PCI è solo per rivendicare di essere stati ingannati.

Verrà anche il momento per puntare le proprie carte su un nuovo cavallo, quando anche la Lega, e il suo cobbligato grilliano, andranno a sbattere.

Forse aveva ragione Flaiano, quando diceva che gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore.  Un tempo ritenevo questo aforisma un distillato di qualunquismo, ma pare proprio che mi sbagliassi.

C'è però un elemento che mi sostiene e induce in me un pur piccolo sentimento di aspettativa.    Le vaste masse che sostennero il vecchio PCI non sono tutte confluite nei due partiti che sostengono l'attuale governo, e neanche nel sempre più esangue PD, per non parlare dei pesi piuma che popolano la litigiosa galassia dell'estrema sinistra.

Un quarto dell'elettorato italiano non si reca più alle urne, e non è possibile arruolare tutta quella gente nell'esercito storicamente minuscolo del disinteresse.

Sto parlando di più di 13 milioni di persone prive di rappresentanza politica e che non intendono collaborare al gioco al massacro della classe politica attualmente in sella.

Lì dentro ci sono tutti quelli che si ritrovano nella parte finale del monologo, che non hanno mai tratto alcun vantaggio personale dalla cosa e che non hanno ragione alcuna per vergognarsi di essere stati comunisti, principalmente perché lo sono ancora, anche se si chiedono cosa significhi esserlo oggi.



P.S.  Alcuni di voi ricevono via mail questi piccoli testi che pubblico sul blog.

Oggi, per la prima volta, la procedura sventaglierà ai diversi indirizzi questo articolo, e uno di questo messaggi non verrà mai letto, perché la destinataria ci ha lasciati il 27 dicembre dell'anno appena conclusosi.
La mia carissima amica Roberta, dall'intelligenza pronta e vivace e con la quale discutevo così tanto e con così tanto piacere, è stata stroncata da quello che viene definito un male incurabile.

Se ne è andata mantenendo una serenità invidiabile, favorita dal suo sentire buddista.
Mi mancheranno molto il suo acume ed il suo senso dell'umorismo.
Ciao Roby. Se le cose fossero logiche avresti dovuto presenziare tu alla mia cerimonia funebre.

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