giovedì 14 marzo 2019

Qui una volta erano tutti prati.

Oggi ho visto un Duomo affascinantecome intagliato nell'avorio, sormontato da un limpido e glorioso cielo azzurro, ed i ricordi mi si sono affollati nella mente, anche se focalizzati un po' fuori del centro della mia città natale.

Sono infatti cresciuto in un quartiere popolare, Calvairate, di una Milano che non esiste più.       
Nel settore meridionale della zona che costituiva il mio mondo infantile, compreso tra la stazione di Porta Vittoria delle FS ed i dintorni per me allora misteriosi di Piazzale Cuoco, esisteva, ed esiste ancora, un vasto comprensorio sviluppato su una decina di isolati, disposti in approssimativo quadrato,  di case popolari di varie dimensioni e qualità.

Erano case IACP ed ALER, nelle quali abitavano i facchini del vicino Ortomercato, quando ancora questo occupava il sedime che ora ospita il Parco Vittoria e la Palazzina Liberty, e gli operai, funzionari, impiegati e conducenti dell'ATM della rimessa di Viale Molise.

Fino al 1967/68 esistette anche una striscia, lunga e stretta, in Via Laura Ciceri Visconti, di cosiddette case minime, abitate da un microcosmo di marginalità, famiglie costituite da dropout da manuale, con redditi incerti e insufficienti, e madri di famiglia già tali molto prima dei quindici anni.


Quegli abitanti, turbolenti ed emarginati, vennero poi sloggiati, con intervento delle forze dell'ordine e molte tragedie personali, per far posto alla mitica Biblioteca Comunale Calvairate, un luogo di aggregazione che molto fece per rivitalizzare il quartiere, e che oggi è in procinto di essere chiusa.


Al centro esatto di quel piccolo mondo prevalentemente operaio stava, in Via Tommei, una attivissima sezione del PCI, nei cui locali ora ha sede una sezione ANPI
Il vecchio Ortomercato era un mondo a sé, congestionato e  con spazi ristretti.   Molti anni dopo, già adulto e padre di famiglia, ritrovai la stessa atmosfera di quella minuscola cittadella quando visitai le medine delle vecchie capitali imperiali marocchine.

Il mio isolato, costituito da case a riscatto costruite sotto il patrocinio della Montecatini e del Banco di Sicilia, costituiva una sorta di saggio autonomo del microcosmo sociale del quartiere, con gli impiegati e funzionari più o meno equamente distribuiti tra i civici di Piazzale Martini e Via Cervignano, e i peones - commessi, ausiliari, autisti e guardie giurate - concentrati in Via Vertoiba e Via Monte Ortigara.

Non era una suddivisione granitica, dato che vi erano diverse inclusioni nei e dei due mondi, però grosso modo avevamo il nostro piccolo downtown ed il nostro slum.
Mio padre era un commesso del Banco di Sicilia, quindi il "nostro posto" era il civico 22 di Via Monte Ortigara.

Sono cresciuto osservando estasiato i poderosi treni merci del contiguo scalo FS di Porta Vittoria, ora raso al suolo, e da piccolo giocavo sui carretti della frutta, che venivano parcheggiati in un apposito spazio, rasente al muro dello scalo merci.
Si trattava di carri di legno, con ampie ruote cerchiate di ferro, risalenti ai tempi della trazione animale, e alla bisogna divenivano magnifici spalti di immaginari manieri medioevali.

Quando l'Ortomercato venne smantellato, per venire trasferito nella sua sede attuale, quello spazio di deposito divenne il parcheggio per le autovetture, divenute nel frattempo numerosissime, dei residenti delle immediate vicinanze, ed anche il luogo ove, in improvvisate alcove ruotate, si intrattenevano nottetempo i gaudenti fruitori di veloci amori mercenari, di cui la mattina dopo trovavamo le tracce.
Seppi infatti cosa fosse un preservativo usato ancor prima di uscire dalla latenza sessuale infantile.

Comunque il nostro condominio, tranne per un funzionario del Banco di Sicilia, una persona di gentilezza rara con la quale poi, da adulto, mi ritrovai a lavorare, era abitato da lavoratori di basso livello, casalinghe con qualche piccola occupazione occasionale, come mia madre, occhiellaia, e relativa prole.

Il primo acerbo seno che tastai, senza sapere bene come procedere, al contrario di lei ora che ci penso, fu di una bella giovinetta della mia scala, figlia di un operaio ed il padre del mio più caro amico d'infanzia, Nicolino, era una guardia giurata della Montecatini che non vedevo mai, perché costantemente in servizio nelle ore notturne, e dunque dormiente in quelle diurne. 

Nicolino, un bimbo molto competitivo fin dalla più tenera età, fu un primo della classe naturale fino all'università quando, evidentemente stanco di perseguire scopi eteroindotti, cedette in un colpo solo, abbandonando tutto per poi passare alcuni anni randagi, seguiti da un destino di impiegato postelegrafonico.

Comunque ai tempi era uno scolaro modello, e anche se non ho mai capito cosa ci unisse così fraternamente, dato che sono sempre stato uno studente da classifica medio bassa, eravamo inseparabili, forse perché non mi dava alcun fastidio la sua superiorità scolastica, conseguita per pura tigna e in un ambiente che premiava il nozionismo.
Fu l'unico della nostra ghenga ad andare al liceo classico, e non uno qualunque, il Berchet nientemeno.

Una volta sola, prima che le nostre strade si dividessero, ebbi con lui uno screzio, anche se prontamente risolto.
Avvenne per una sciocchezza, una frasetta da nulla  pronunciata da sua sorella Anna, una bella ragazza dagli occhi di smeraldo della quale ero segretamente e inutilmente innamorato (era più grande di me, di cinque anni se non ricordo male, una voragine) alla quale non venne consentito di andare oltre le magistrali, pur essendo molto più intelligente del fratello.

Eravamo a tavola, al momento della frutta, ed Anna disse, dopo aver gustato una fragrante pesca:
"Certo che le pesche bianche, quando sono buone, sono veramente buone".

Una tipica tautologia meneghina, un pochetto goffa, che non meritava che qualche cenno di approvazione, come quando ci si pronuncia sulle mezze stagioni, ormai scomparse, come sanno tutti.

Nicola invece prese di aceto, forse per la sua qualità di fortunato liceale classico, e sferzò l'esterrefatta sorella con una dose monumentale di disprezzo per la goffaggine linguistica e logica della sentenza.

Non so se fu il segreto trasporto per la dolce Anna che mi fece intervenire, però gli risposi che se il Manzoni poteva permettersi di dire "Il cielo di Lombardia, che è così bello quando è bello", lui poteva anche farsi una doccia gelata e calmarsi.

Al momento non la prese per niente bene, ma poi ci riappacificammo.


lunedì 11 marzo 2019

Governare vuol dire non dover mai dire mi dispiace?


Oggi prendiamo atto della non soluzione della TAV in Val di Susa, buttata in là per scavallare le elezioni europee facendo finta che il contratto di governo non sia una carogna putrefatta, e che gli ipodotati al governo siano dei miracolati, del tutto impermeabili alla responsabilità politica di scelte che si guardano bene dal prendere.

La cosa è del tutto evidente, al punto che è necessario dare in pasto all'opinione pubblica qualcosa in grado di distogliere l'attenzione.
Ci hanno provato con i mal di fegato trumpiani sulla formalizzazione di una via della seta cinese suscettibile di sottrarci all'imperio statunitense, ma non ha funzionato molto bene.

Ecco dunque che ci riprovano con un evergreen, il costoso F35, ma sottolineando i malumori atlantici, per i possibili ripensamenti circa il numero di esemplari ancora da acquisire ed il mancato pagamento di parte di quelli già in servizio.

Il tentativo pare essere quello di dimostrare che, si, è vero, sulla TAV vi abbiamo preso per il culo, sulla TAP abbiamo calato le braghe senza discutere, con le retribuzioni dei parlamentari abbiamo franato di brutto, però con i costosi cacciabombardieri forse riusciremo a tener duro, anche se alla maniera degli antieroi cialtroni e caciaroni pennellati da Sordi nei suoi film.

D'altra parte non meno rumorosi saranno i detrattori che si getteranno sulla cosa per sottolineare la ormai acclarata inaffidabilità dei frastornati seguaci della chiesa grilliana.

La cosa non mi appassiona.  Si tratta di manovrine goffe affidate alle prime pagine dei giornali per celare il fatto che i nostri indecenti governanti non hanno le qualità morali per sostenere i ruoli che indegnamente ricoprono, però mi offrono la possibilità di mettere nero su bianco alcune considerazioni, alle quali tengo molto, circa una delle più scomode e neglette funzioni principali dello Stato, ovvero quella della Difesa.

Sarò prolisso, forzatamente non esaustivo, e meno organico di quanto mi piacerebbe, dato che l'argomento è molto vasto ed articolato e per scrivere questo pezzo ho anche cucito insieme un po' di miei interventi sparsi, con qualche problema di fluidità.

Iniziamo dicendo che quando parlo di spese militari parto da un presupposto dal quale fare discendere tutto quanto.

Io non sono un pacifista, il che non significa che amo la guerra, anzi, ma solo che ritengo la posizione unilateralmente pacifista altamente morale, però anche disastrosamente autolesionista, dato che avere a che fare con manifestazioni di aggressività a tuo danno significa anche, e necessariamente, che chi ti aggredisce è un disperato o uno psicopatico, che questo sia una persona fisica, un gruppo politico o una nazione. 

Ne consegue dunque che il diritto naturale all'autodifesa e conservazione dell'individuo vada estesa alla comunità nazionale, costituendo una responsabilità ineludibile, che rimane tale anche se la minaccia è solo potenziale o ipotizzabile.

Detto questo, mi sembra chiaro che considero la funzione difesa di una nazione necessaria e imprescindibile, tanto quanto tutte le altre: sicurezza, che con la difesa è strettamente imparentata, istruzione, sanità e via elencando. 

Tra tutte queste funzioni può esistere una gerarchia, in parte contingente e in parte naturale, ma questo non diminuisce la necessità di presidiarle tutte al meglio e compatibilmente con le risorse disponibili.

Una ulteriore considerazione generale discende dal fatto che è responsabilità della politica gestire le diverse funzioni prima di tutto in stretta aderenza al dettato costituzionale, poi alle leggi vigenti ed alle circostanze ed esigenze specifiche di un dato momento, mantenendo gli obblighi e le necessità all'interno di una sintesi assai articolata e di non sempre facile definizione, che per noi, quando si parla di difesa, deve, o dovrebbe, rispondere primariamente al dettato dell'articolo 11 della nostra Costituzione:

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”


Quando sui social si parla di argomenti militari molto raramente trovo posizioni che si conformino ai miei principi guida, dato che in genere si oscilla tra un militarismo fine a se stesso, invariabilmente collegato a posizioni politiche di estrema destra, ciniche considerazioni di natura economica, ascrivibili al liberismo da pecunia non olet, e pregiudiziale avversione per tutto ciò che ha le stellette, da parte di una estrema sinistra alla quale armi, eserciti e formazioni armate piacciono solo quando sono popolari o si oppongono agli USA, nel qual caso le portano in palma di mano.

Detto questo, e andando sulla specificità dello strumento militare, io credo che la funzione difesa vada prima pensata in termini politici, economici, di opportunità, dottrinali e anche - e soprattutto - tenendo conto che abbiamo precisi limiti costituzionali che ne devono informare scopi e operatività.
Poi va costruita un'ipotesi di lavoro che sposi gli scopi così individuati con le disponibilità economiche, prevedendo inoltre un grado di flessibilità che ti consenta di affrontare i problemi congiunturali che, inevitabilmente, emergono quando si parla di processi e progetti pluriennali.

Credo che la dimensione tendenzialmente più adeguata dello strumento militare andrebbe pensata in termini quantomeno europei, ma nel frattempo bisogna pur pensare agli assetti intermedi, e magari anche a parare il fallimento, sempre più probabile, della costruzione di un'Europa politicamente unita.

La qualità ed il livello del contenuto tecnologico richiesto vanno individuati inoltre non solo quale risposta al corrispondente contenuto dell'avversario potenziale, dato che questo comunque può risultare foraggiato da qualche tuo antagonista che decide di contrastarti per interposta fazione. 

I paesi arabi che combatterono contro Israele, per esempio, privi del necessario know how, vennero inondati di sistemi d'arma sovietici, così come gli USA armarono con il meglio della loro produzione Israele, appunto, e molti altri loro alleati e galoppini.

Un adeguato contenuto tecnologico, inoltre, permetterebbe di mantenere le forze armate a dimensioni ottimali. Diversamente bisognerebbe rassegnarsi a una consistenza inadeguata - quindi inutile - o, al contrario, molto consistente, immobilizzando così risorse umane e materiali che verrebbero sottratte ad altri settori.

Questo in teoria, dato che mi sembra invece che, a partire dall'intervento in Kossovo a scendere, noi si sia diventati una sorta di esercito di complemento al servizio degli interessi USA.   

Questa considerazione però non dovrebbe incidere sul dibattito più generale su dimensioni, finalità e manutenzione del nostro strumento militare, ma solo sul suo impiego, che dovrebbe essere ricondotto alle sue funzioni costituzionali. mantenendo la migliore efficacia possibile al costo più conveniente.

Quando però vedo scoppiare i vari flame sui social mi rendo conto che troppi, quando discutono di problemi militari, non si prendono la briga di informarsi sugli aspetti tecnici delle problematiche connesse, così da evitare considerazioni qualche volta ridicole.

Ho sentito dire da qualcuno che non abbiamo bisogno di comprare gli F35 perché abbiamo già i Tornado, e mi chiedo quanti si rendano conto che quell'ottimo aereo ha effettuato il primo volo nel 1974 e vorrei chiedere a questi detrattori se la loro autovettura personale può vantare la stessa anzianità di servizio.

Concionare di come realizzare risparmi o ottimizzazioni senza avere la minima cognizione degli aspetti tecnici connessi a sistemi d'arma complessi e senza comprendere che, per esempio, gestire una flotta di caccia è un pochino più complesso che amministrare la propria autovettura personale, è ridicolo e incosciente.

Solo per amor di precisione e perché non amo le sottovalutazioni interessate: gli F35 non sono sfortunatissimi e pieni di difetti. Sono solo macchine assai complicate, con sistemi e tecnologie estremamente innovativi, il cui sviluppo può durare anche decenni, come è capitato anche ad altri aerei che li hanno preceduti. Non sono più infatti i tempi dello Spitfire della II Guerra Mondiale, che non aveva niente di più complicato del motore Merlin che lo equipaggiava.

Per portare il Tornado a maturazione, quello che ora ha 45 anni di servizio sulle spalle e cellule così sfibrate da poter volare solo con pesanti limitazioni, ci sono voluti 9 anni solo per arrivare al primo volo, nel '74, e ricordo che a ogni minimo intoppo nel processo di sviluppo, immancabile nella tecnologia allora innovativa dell'ala variabile, si sragionava sulla trappola volante.

Ci possiamo permettere gli F35, soprattutto nel numero di esemplari a suo tempo statuito? Non credo proprio, ma questo non toglie che la nostra linea cacciabombardieri si basi su Tornado, aerei fantastici, ma già ultraquarantenni, e AMX-Ghibli, un aeromobile, a sua volta ultratrentenne, volutamente mantenuto a basso livello tecnologico quale alternativa spendibile al Tornado, laddove la qualifica di spendibile si riferisce anche al pilota che lo conduce.

No, il problema degli F35 non è che siano dei fallimenti, perché non lo sono. Il problema è che sono assurdamente costosi e noi, semplicemente, non ce li possiamo permettere, e il fatto che siano così dispendiosi, ai miei occhi perlomeno, è ancora più inaccettabile di qualsiasi loro problema di progettazione, perché un difetto lo si sistema, ma il costo di una macchina avanzatissima è e rimane alto, anzi non può che aumentare, dato che le economie di scala verrebbero azzerate dalle implementazioni che seguiranno, nello sforzo di spremere fino all'ultima goccia prestazionale da un progetto impegnativo.

Dunque se l'esigenza è quella di rinnovare la linea cacciabombardieri, anche per non spendere altri soldi in una forza armata che non può svolgere i propri compiti, buttandoli dunque via, sarà il caso di abbassare di molto standard e pretese.

D'altra parte mantenere in servizio pezzi da museo, e con gravi limitazioni, come fu col mio coetaneo e mitico F104, è non solo inutile e pericoloso, è anche un modo dissennato e criminale per buttare a palate soldi fuori dalla finestra. 

Se ci si fermasse a pensare anche solo per un attimo al problema nella sua globalità, e non solo agli aspetti che interessano a ciascun interlocutore, il dibattito ne trarrebbe grande giovamento.


Il problema però non è solo QUANTO COSTA, o solo COSA DOBBIAMO FARE, il problema è che dobbiamo porci ambedue le domande e bilanciarle per ottenere la risposta più equilibrata, che fatalmente dovrà fare i conti con i nostri limiti non meno che con le nostre esigenze.

E qui ritorna il problemino del dettato costituzionale, che ci impegna a mantenere una politica strettamente difensiva. Possiamo anche ragionare su quanto un'azione preventiva di proiezione della potenza possa, o meno, passare per difesa, e non piuttosto come aggressione, ma difficilmente i nostri interventi in Afghanistan, Irak e Serbia/Kossovo sono contrabbandabili per difesa preventiva.

Gli impegni NATO, derivanti da un quadro geopolitico sorpassato dagli eventi, prevedono obblighi di collaborazione comune alla difesa globale degli aderenti al trattato, e solo in caso di aggressione. Il concorso alla modulazione e caratteristiche dello strumento militare passa dunque dal concetto di aliquota nazionale dello sforzo comune.

Eppoi bisognerà pur dire che il XXI Secolo, come la parte finale del XX del resto, ha visto il prevalere, ormai consolidato, del cosiddetto conflitto asimmetrico
Non essendo più verosimili grandi scontri tra contendenti con livelli tecnologici alti e tra loro comparabili, con vaste formazioni meccanizzate che si scontrano sul varco di Fulda o sulla soglia di Gorizia, con tutto il contorno di armi sofisticate che ciò comporta, le necessità dello strumento militare dovranno pur essere ridimensionate a coerenza.

Potremmo dovercela vedere con una Russia rinata e revanscista? Potrebbe accadere, ma non credo si possa pensare seriamente che, anche azzerando il nostro già comatoso stato sociale per sostenere un elefantiaco strumento militare, noi potremmo indurre in Putin qualche preoccupazione.

Certo, c'è l'
ISIS, che però basa gran parte della sua strategia sugli aspetti propagandistici e terroristici.
Le armate del califfato possono anche venire in possesso di armamenti sofisticati, ma come qualsiasi pianificatore militare può confermare, avere l'arma non significa sapere come usarla traendone il massimo vantaggio. 
La Libia di Gheddafi spese una montagna di soldi per sommergibili che rimasero in porto, uno dei quali, se non sbaglio, affondò quietamente mentre era attraccato alla sua banchina.

E' poi sotto gli occhi di tutti che se il dispositivo militare occidentale già ora, potenzialmente, è in grado di punire severamente il califfato, ciò, per tutta una serie di ragioni politiche e strategiche, non avviene con la dovuta solerzia e tempestività.
Il Califfato è stato ridimensionato, ma non ancora azzerato, dato che qualcuno potrebbe, in futuro, averne ancora bisogno per le proprie manovre geopolitiche.
A che serve dunque avere la Rolls Royce dei cacciabombardieri se poi le cancellerie non sanno/vogliono neanche arginare un'armata che va all'attacco su
tecniche armate di mitragliatrici da 13 mm, ovvero su fuoristrada equipaggiati con un'arma ultracinquantenne, ancorché potente?

Con gli armamenti le amministrazioni accorte si dotano degli strumenti con il maggior potenziale di durabilità ed efficacia, ma sempre nei limiti delle possibilità economiche.
Ci si dota del mezzo che farà fruttare al meglio l'investimento, e questo non necessariamente implica l'acquisizione del top di gamma. L'importante è avere uno strumento militare che non comporti dolorose rinunce in altri settori, ma credibile e sostenibile.

Però, alla fine di tutto, rimane il fatto che anche se faremo a meno degli F35 (ma sarà così?), a noi rimane comunque l'esigenza di rinnovare la flotta cacciabombardieri, e rimanendo la materia ostaggio di pregiudizi di ogni tipo, continueremo a sostenere che abbiamo già i Tornado, sempre con lo stesso livello di approfondita conoscenza delle tematiche coinvolte, e la stessa incapacità progettuale strategica, il che può anche andare in un privato cittadino, un po' meno quando si è governanti piacioni e incapaci.



domenica 3 marzo 2019

Chi si estranea dalla lotta ecc. ecc.

Io ne avevo già il sospetto.   PD ed M5S hanno, in fondo, importanti punti di contatto, cosa che giustifica in gran parte il tasso di ferocia che utilizzano per squarciarsi reciprocamente il ventre.

Gli obiettivi di dettaglio che perseguono potranno essere differenti, però su alcune cose, metodologie propagandistiche e modelli variamente grossolani di manipolazione delle coscienze, sono piuttosto sovrapponibili e, alla fine, si rivolgono pur sempre alla stessa platea, seppure con tassi di successo di volta in volta differenti.

Qui ed ora mi interessa focalizzarmi su un aspetto particolare e di sempre maggiore rilevanza.       Mi riferisco al disprezzo che ambedue riservano ad un fenomeno che si è andato ingrossando in maniera inversamente proporzionale al tasso di credibilità della nostra classe politica: l'astensione.

Quando M5S, prima della pessima prova che sta dando ora che è al potere, coltivava sogni di grandezza e si sentiva alla vigilia di una presa della Bastiglia epocale, quel Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno, ben più di qualche energia veniva riservata dalla loro macchina propagandistica per stigmatizzare l'astenuto, visto come un pericoloso sabotatore in grado di insidiare le magnifiche sorti e progressive dei novelli sanculotti, negando loro i numeri per il conseguimento di una vittoria definitiva.

Un sistema elettorale indeciso tra un proporzionalismo disinnescato ed un maggioritario incompiuto per ripetuti interventi della Corte Costituzionale, grazie anche alla rilevanza numerica dell'astensione, ha consegnato un risultato elettorale che sarebbe stato compiutamente affrontabile solo da forze in grado di agire i meccanismi istituzionali senza la pesante zavorra di un'antipolitica cialtrona e strumentale.

Sorpresi (sic!) da una fatale insufficienza respiratoria, i frastornati grilloidi hanno sbattuto il grugno su uno dei loro dogmi preferiti, l'autosufficienza, e si sono visti costretti ad alleanze per le quali non avevano elaborato alcuna metodologia affidabile.

Tutti ricordano il gran rifiuto renziano, che in realtà era tutto tranne che imprevedibile e la cui improbabile praticabilità mise in grande agitazione il mondo dei sostenitori pentastellati, avvezzi da più di un quinquennio all'indicazione del mostro pidiota quale fonte di ogni male.

Pochi hanno interesse a ricordare che quello stesso mondo, in gran parte, non fece una piega al pensiero di una connivenza con la Lega, della quale condivideva molte posizioni, su immigrazione e sinistra lato sensu in particolare.

Oggi che quei rivoluzionari all'amatriciana, orbi di una vittoria mutilata, si sono rivelati essere un'accolita variamente frequentata da dilettanti poco dotati, campioni della morale ad assetto variabile, mestieranti sotto mentite spoglie e teste di legno al servizio di interessi opachi il loro arcinemico, il PD, si frega le mani e si attrezza se non per una rivincita, perlomeno per un recupero che lo riporti al centro delle dinamiche parlamentari.

Pensando di sentire risuonare, forti e squillanti, le trombe della riscossa e, senza sprecare un solo attimo per riconoscere i molti e devastanti errori compiuti nel recente, recentissimo, passato, la scalcinata corazzata dem si ricicla quale argine all'arrembante salvinismo e ripercorre, senza vergogna alcuna, la strada dell'usuratissimo voto utile, al quale affida un recupero originato da considerazioni di convenienza, non avendo null'altro da proporre.

Ed ecco che, per le medesime ragioni che a suo tempo motivarono l'acidità delle considerazioni grillesche, oggi incrociamo la rotta di una pletora di supporter piddini che grondano frasette sprezzanti e intrise di superiorità morale tese a stigmatizzare la bestia nera, l'astenuto.

Perché lo fanno? Ma perché l'astensione svuoterà anche il loro opportunismo miserabile, ecco perché, e dunque le critiche non si risparmiano, nel vano tentativo di disinnescare il pericolo.

Recentemente sono intervenuto in una discussione sull'inutilità di partecipare a primarie PD che offrono una scelta tra candidati virtualmente indistinguibili tra di loro, se non per esteriorità stucchevoli, e che confermano ogni scelta strategica passata, e catastrofica per le fortune elettorali di un partito impropriamente definito di sinistra.

A un certo punto, puntuale come la proverbiale morte, emerge questa sentenza, rivolta al titolare del profilo che accoglieva il dibattito:

"Ma se non t'interessa, per coerenza, stai zitto, invece di spruzzare veleno dicendo baggianate senza senso".  

Leggero e benevolo, non vi pare? 

E no, zitti una beata fava di niente, caro il mio sepolcro imbiancato.  Quei tre pretendenti, comunque vada, non diventeranno presidenti della Bocciofila di Roccacannuccia di Mezzo.    Uno di loro guiderà il secondo partito italiano (tra quelli votati, ma in realtà il terzo, perché il primo partito italiano è quello dell'astensione) e dunque non mancherà di incidere sulla vita di un sacco di gente.     A me, come a milioni di italiani, non interessa chi vincerà un turno di primarie sostanzialmente aperto anche agli oppositori, perché comunque vada sarà un altro disastro.

Preparato il tavolo, ecco che il nostro cala il suo carico, e con fare dolente, comunque tipico e, come dicevo all'inizio, virtualmente indistinguibile dal tono e dai contenuti di equivalenti esercizi di infastidita superiorità espressi a suo tempo dal grillino medio, mi sento rispondere:

"Chi non vota fa una scelta, per carità, ma poi, a giochi fatti, non può rientrare in partita criticando le scelte degli altri. Chi non sceglie, per coerenza, dopo deve stare zitto. Troppo comodo criticare senza aver giocato."

E' fastidioso esser presi per scemo da un idiota.  Questa è una vecchia obiezione che poteva valere quando gli astenuti si tenevano entro il limite storico e fisiologico del 2-4%, ma da qualche anno a questa parte parliamo di perlomeno UN QUARTO degli elettori (alle ultime politiche si tratta del 27,1%, circa 13 mln di aventi diritto) e la cosa non può essere liquidata così alla svelta, se non in malafede.

La classe politica italiana non è adeguatamente rappresentativa, e questo è un fatto.
Chi si astiene dalla lotta, è un gran figlio di mignotta  poteva essere uno slogan adeguato un tempo, ma ora non lo è più.

Peraltro io ho votato, ma solo perché mi ripugna non esercitare un diritto così fondamentale, però capisco molto bene chi ha deciso non di astenersi, bensì di non collaborare con chi sta facendo strame delle nostre terga. 

Chi si astiene, con questi numeri, in realtà è come se votasse, e dichiara, forte e chiaro, ma non per i sordi come il mio interlocutore, che se sulla ribalta si affacciasse un partito di sinistra che voltasse le spalle ai tradimenti del PD, e non fosse lunarmente onanistico come certi duri e puri, lo voterebbe in massa.

Come so che ciò avverrebbe? Semplice: l'astensione cresce e l'unica parte politica che svanisce è la sinistra, mentre la destra non fa altro che esercitare la transumanza tra sigle.

Astenuti, si, ma a ragion veduta e con ogni diritto per farlo e per sfanculare chi li obbliga a quella scelta.