giovedì 14 marzo 2019

Qui una volta erano tutti prati.

Oggi ho visto un Duomo affascinantecome intagliato nell'avorio, sormontato da un limpido e glorioso cielo azzurro, ed i ricordi mi si sono affollati nella mente, anche se focalizzati un po' fuori del centro della mia città natale.

Sono infatti cresciuto in un quartiere popolare, Calvairate, di una Milano che non esiste più.       
Nel settore meridionale della zona che costituiva il mio mondo infantile, compreso tra la stazione di Porta Vittoria delle FS ed i dintorni per me allora misteriosi di Piazzale Cuoco, esisteva, ed esiste ancora, un vasto comprensorio sviluppato su una decina di isolati, disposti in approssimativo quadrato,  di case popolari di varie dimensioni e qualità.

Erano case IACP ed ALER, nelle quali abitavano i facchini del vicino Ortomercato, quando ancora questo occupava il sedime che ora ospita il Parco Vittoria e la Palazzina Liberty, e gli operai, funzionari, impiegati e conducenti dell'ATM della rimessa di Viale Molise.

Fino al 1967/68 esistette anche una striscia, lunga e stretta, in Via Laura Ciceri Visconti, di cosiddette case minime, abitate da un microcosmo di marginalità, famiglie costituite da dropout da manuale, con redditi incerti e insufficienti, e madri di famiglia già tali molto prima dei quindici anni.


Quegli abitanti, turbolenti ed emarginati, vennero poi sloggiati, con intervento delle forze dell'ordine e molte tragedie personali, per far posto alla mitica Biblioteca Comunale Calvairate, un luogo di aggregazione che molto fece per rivitalizzare il quartiere, e che oggi è in procinto di essere chiusa.


Al centro esatto di quel piccolo mondo prevalentemente operaio stava, in Via Tommei, una attivissima sezione del PCI, nei cui locali ora ha sede una sezione ANPI
Il vecchio Ortomercato era un mondo a sé, congestionato e  con spazi ristretti.   Molti anni dopo, già adulto e padre di famiglia, ritrovai la stessa atmosfera di quella minuscola cittadella quando visitai le medine delle vecchie capitali imperiali marocchine.

Il mio isolato, costituito da case a riscatto costruite sotto il patrocinio della Montecatini e del Banco di Sicilia, costituiva una sorta di saggio autonomo del microcosmo sociale del quartiere, con gli impiegati e funzionari più o meno equamente distribuiti tra i civici di Piazzale Martini e Via Cervignano, e i peones - commessi, ausiliari, autisti e guardie giurate - concentrati in Via Vertoiba e Via Monte Ortigara.

Non era una suddivisione granitica, dato che vi erano diverse inclusioni nei e dei due mondi, però grosso modo avevamo il nostro piccolo downtown ed il nostro slum.
Mio padre era un commesso del Banco di Sicilia, quindi il "nostro posto" era il civico 22 di Via Monte Ortigara.

Sono cresciuto osservando estasiato i poderosi treni merci del contiguo scalo FS di Porta Vittoria, ora raso al suolo, e da piccolo giocavo sui carretti della frutta, che venivano parcheggiati in un apposito spazio, rasente al muro dello scalo merci.
Si trattava di carri di legno, con ampie ruote cerchiate di ferro, risalenti ai tempi della trazione animale, e alla bisogna divenivano magnifici spalti di immaginari manieri medioevali.

Quando l'Ortomercato venne smantellato, per venire trasferito nella sua sede attuale, quello spazio di deposito divenne il parcheggio per le autovetture, divenute nel frattempo numerosissime, dei residenti delle immediate vicinanze, ed anche il luogo ove, in improvvisate alcove ruotate, si intrattenevano nottetempo i gaudenti fruitori di veloci amori mercenari, di cui la mattina dopo trovavamo le tracce.
Seppi infatti cosa fosse un preservativo usato ancor prima di uscire dalla latenza sessuale infantile.

Comunque il nostro condominio, tranne per un funzionario del Banco di Sicilia, una persona di gentilezza rara con la quale poi, da adulto, mi ritrovai a lavorare, era abitato da lavoratori di basso livello, casalinghe con qualche piccola occupazione occasionale, come mia madre, occhiellaia, e relativa prole.

Il primo acerbo seno che tastai, senza sapere bene come procedere, al contrario di lei ora che ci penso, fu di una bella giovinetta della mia scala, figlia di un operaio ed il padre del mio più caro amico d'infanzia, Nicolino, era una guardia giurata della Montecatini che non vedevo mai, perché costantemente in servizio nelle ore notturne, e dunque dormiente in quelle diurne. 

Nicolino, un bimbo molto competitivo fin dalla più tenera età, fu un primo della classe naturale fino all'università quando, evidentemente stanco di perseguire scopi eteroindotti, cedette in un colpo solo, abbandonando tutto per poi passare alcuni anni randagi, seguiti da un destino di impiegato postelegrafonico.

Comunque ai tempi era uno scolaro modello, e anche se non ho mai capito cosa ci unisse così fraternamente, dato che sono sempre stato uno studente da classifica medio bassa, eravamo inseparabili, forse perché non mi dava alcun fastidio la sua superiorità scolastica, conseguita per pura tigna e in un ambiente che premiava il nozionismo.
Fu l'unico della nostra ghenga ad andare al liceo classico, e non uno qualunque, il Berchet nientemeno.

Una volta sola, prima che le nostre strade si dividessero, ebbi con lui uno screzio, anche se prontamente risolto.
Avvenne per una sciocchezza, una frasetta da nulla  pronunciata da sua sorella Anna, una bella ragazza dagli occhi di smeraldo della quale ero segretamente e inutilmente innamorato (era più grande di me, di cinque anni se non ricordo male, una voragine) alla quale non venne consentito di andare oltre le magistrali, pur essendo molto più intelligente del fratello.

Eravamo a tavola, al momento della frutta, ed Anna disse, dopo aver gustato una fragrante pesca:
"Certo che le pesche bianche, quando sono buone, sono veramente buone".

Una tipica tautologia meneghina, un pochetto goffa, che non meritava che qualche cenno di approvazione, come quando ci si pronuncia sulle mezze stagioni, ormai scomparse, come sanno tutti.

Nicola invece prese di aceto, forse per la sua qualità di fortunato liceale classico, e sferzò l'esterrefatta sorella con una dose monumentale di disprezzo per la goffaggine linguistica e logica della sentenza.

Non so se fu il segreto trasporto per la dolce Anna che mi fece intervenire, però gli risposi che se il Manzoni poteva permettersi di dire "Il cielo di Lombardia, che è così bello quando è bello", lui poteva anche farsi una doccia gelata e calmarsi.

Al momento non la prese per niente bene, ma poi ci riappacificammo.


Nessun commento:

Posta un commento

Ti ringrazio per aver voluto esprimere un commento.