Ho
preso atto del risultato delle primarie del PD per la scelta del
candidato sindaco di Genova.
Uso l'espressione “prendere atto”, distaccata e neutra, perché
a mio parere non dobbiamo sprecare una preziosa occasione per cercare
di comprendere al meglio un evento e trarne preziosi insegnamenti e
validi orientamenti, e dobbiamo poterlo fare spassionatamente ed
analiticamente.
Non
sono interessato all'evento specifico. Conosco solo superficialmente
i problemi di Genova. So solo che la città è compressa in uno
spazio angusto rispetto alle sue dimensioni e che questo ha
conseguenze sulla qualità della vita, sulla viabilità e sulle
comunicazioni. Il porto, tra le principali attività economiche
genovesi, ha visto tempi migliori. Il centro storico ha, credo,
vaste zone che abbisognerebbero di urgenti ed onerosi interventi di
recupero. Anche sui candidati non ho che elementi di giudizio
superficiali, ma non ha molta importanza. Presumo che i genovesi
avessero tutte le informazioni necessarie e che la loro scelta sia
stata ben ponderata poiché, come molte altre realtà italiane, il
governo di Genova è una sfida impegnativa e necessita di scelte
adeguate.
Quello
che mi interessa è altro. Intanto faccio una considerazione.
Prendo in esame gli esiti delle primarie più recenti e posso solo
pensare che una cosa può accadere una volta e va bene così; può
accadere una seconda volta ed è una bella combinazione; dalla terza
volta in avanti devo concludere che un fatto si ripeta per ragioni
precise ed oggettive. Sarà importante valutare tutte le
implicazioni connesse.
Implicazione
numero uno.
Il
sistema delle primarie è un sistema di successo. I tassi di
partecipazione possono fluttuare, ma la comunità degli elettori del
centro sinistra vi annette grande importanza ed ha fiducia, finora
confermata, che il partito si atterrà alle indicazioni scaturite
dalle urne, anche quando queste saranno differenti da quelle indicate
dalla segreteria.
Il
PD, di conseguenza, potrà avere qualche mal di pancia in alcune sue
componenti, ma aderisce sostanzialmente alla promessa di trasparenza
e democrazia di base connessa al sistema delle primarie, e non è
poco in un contesto politico di nominati.
Implicazione
numero due.
Il
PD, evidentemente, aggrega un grande numero di elettori, ma fatica a
produrre candidati realmente in sintonia con la base elettorale.
Troppo spesso la selezione risponde più a logiche interne di
corrente che all'individuazione delle personalità che più sanno
interpretare le istanze territoriali.
Implicazione
numero tre (che affina quella precedente).
Milano,
Cagliari, Regione Puglia dimostrano che l'elettorato ha scelto
personalità consistenti che, poi, hanno condotto alla vittoria.
Spesso queste personalità vengono messe in quota SEL, ma questo non
è sempre corretto. Il più delle volte sono semplicemente
appoggiate da SEL e, in sé, accolgono il consenso di vasti e
compositi strati della cittadinanza.
Qualcuno pensa veramente che a
Milano Pisapia avrebbe avuto qualche chance se non avesse goduto di
grande ascendente personale e di un appoggio trasversale e
incredibilmente rappresentativo di tutte le componenti cittadine,
anche di quelle piuttosto distanti dalla sinistra? Tra l'altro, per
quello che ne so, l'affermazione di Doria a Genova presenta notevoli
somiglianze con quella di Pisapia.
Credo
che sia corretto affermare che il PD è nato per aggregare al suo
interno le due grandi tradizioni riformiste italiane, quella
socialista e quella cattolica e generare così una più completa e
valida offerta politica progressista. Non si tratta di un compito
banale date le peculiarità, tutte italiane, del processo evolutivo
politico del secondo dopoguerra.
Troppo prolungate e polarizzate
sono state le divergenze conseguenti alla cristallizzazione del
dibattito in un paese che, contemporaneamente, ospitava un papa invariabilmente ingombrante, fungeva da
baluardo contro l'Est sovietico ed annoverava la presenza del più
grande e potente partito comunista d'opposizione del mondo.
Né è
stato molto di aiuto il collasso repentino di quello status quo. La
regolarità del processo di elaborazione del cambiamento ne ha molto
risentito. Il risultato è che la fusione armoniosa delle migliori
istanze delle due componenti non è avanzata quanto sarebbe
desiderabile e che le resistenze e le meschinità delle frange più
arretrate delle due parti incidono più di quanto sarebbe
auspicabile.
Tra
le conseguenze di questo stato di cose vi è, tra l'altro, la
difficoltà di elaborazione di una linea politica coerente,
persistente e con respiro strategico. Troppo spesso la tattica
miope ed il gioco correntizio prendono il sopravvento, questo perché
le pratiche egemoniche restano pericolosamente seducenti.
Agli
elettori, però, non interessano le manovre più o meno sagaci e
spietate dei vari capibastone, la finezza o la brutalità con la
quale scafatissimi, e di lungo corso, professionisti della politica
riescono a mettere in minoranza, momentanea peraltro, indesiderati competitori alla
conduzione del partito.
La
gente “normale” si aspetta senz'altro che all'interno del proprio
partito di riferimento vi sia un processo di elaborazione della linea
politica, magari anche brutale, ma compiuto e fungibile e non, come
ora, inconcludente e privo di propositività. Da una parte si teme di
perdere pezzi, dall'altra si cerca di scongiurare ogni parvenza di
vittoria, anche parziale, che possa avvantaggiare l'antagonista
interno.
Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che troppo
spesso il candidato è una personalità opaca che, più che
rispondere alle istanze del territorio e degli elettori, è il prodotto della soffocante tutela degli equilibri di compromesso
dell'apparato che lo ha espresso.
Se poi, come a Genova, si compie
l'errore tattico (ma inevitabile vista la logica soggiacente) di
andare alla consultazione con più candidati, non si fa altro che
lastricare il percorso della proposta “esterna”, già
intrinsecamente più appetibile, favorendo la dispersione dei voti.
L'insofferenza
dell'elettorato (soprattutto di centro sinistra) ha veramente
raggiunto livelli di guardia. Il meccanismo di identificazione con un partito-chiesa non funziona più già da decenni.
L'elettore pretende sempre più pressantemente dalla politica, vista
la situazione e le prospettive deprimenti, l'assunzione di precise
responsabilità sui programmi e sulla loro gestione.
Prodi,
nella sua prima campagna elettorale, raccolse molti consensi perché,
tra l'altro, era l'unico che dimostrava di avere una prospettiva
storica. I programmi che proponeva guardavano al ventennio
successivo. Questo dovrebbe fare un politico. Prodi venne fatto
fuori dal piccolo cabotaggio di manovratori della politica dal corto
respiro. In molti se lo ricordano tuttora e non sono troppo disposti
a perdonare o dimenticare.
Pisapia
ha avuto successo perché è risultato credibile e propositivo, ha
dimostrato di voler governare in stretta relazione con i cittadini e
non ha mai occultato o edulcorato i provvedimenti critici che si
proponeva di prendere.
E' stato, in una parola, autorevole e
questo lo ha ripagato, ha insomma deciso di correre i suoi rischi.
Siamo tutti in ansiosa attesa che il PD arrivi alla stessa
determinazione. Certo, può optare per una tormentosa morte per
inedia.
Fatti
suoi? No, dannazione, fatti nostri.
P.S. Ho inoltrato, come allegato, questo articolo a Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Enrico Letta, Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Alcuni destinatari li ho coinvolti in quanto istituzionali, altri perché li ritengo responsabili dell'impasse che affligge il PD, tutti perché gestiscono, tra gli altri, anche il mio voto.
P.S. Ho inoltrato, come allegato, questo articolo a Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Enrico Letta, Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Alcuni destinatari li ho coinvolti in quanto istituzionali, altri perché li ritengo responsabili dell'impasse che affligge il PD, tutti perché gestiscono, tra gli altri, anche il mio voto.
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