In questo momento di recrudescenza
desolante di un integralismo religioso che travolge i singoli per
affermare le proprie verità, rivelate e non negoziabili,
che calpesta ogni possibile declinazione della carità cristiana per
esercitare un sistema di controllo sociale che è, prima di tutto,
sistema di potere temporale, riemerge un ricordo della mia infanzia e
prima adolescenza.
Per desiderio espresso di mia madre, e
contro il parere risoluto, ma perdente, di mio padre, ho ricevuto una
completa educazione cattolica, con annesso percorso sacramentale
d’ordinanza e pure un’esperienza da chierichetto, brevissima
perché mio padre ottenne che perlomeno questo, dopo solo una messa,
mi fosse risparmiato.
Frequentai chiesa e oratorio con
spirito fiducioso, come fanno i bambini, e senza rendermi conto
dell’orgia di conformismo nella quale mi stavo rivoltolando.
Da un certo punto in avanti però
cominciai provare un certo disagio che solo in parte poteva provenire
dalla contrarietà di mio padre, inflessibile ma pochissimo
manifestata, dato che si limitava a non partecipare alle fasi del mio
percorso formativo.
Ricordo che nei giorni della prima comunione
e della cresima, mia e di mia sorella, mentre il resto della famiglia
era in chiesa lui era di norma in un bar vicino a giocare a flipper,
con grandissimo scorno di mia madre e di mia zia.
Il mio disagio era di tipo esistenziale
e oscuro, date le scarse capacità di razionalizzazione di un
ragazzino. C’era qualcosa che non girava e che mi causava un
malessere sottile, che montava costantemente e mi rendeva timoroso e
insoddisfatto.
Ci misi molto ad inquadrare quel
disagio, e quando lo feci, in maniera provvisoria e non ben definita,
presi una decisione che fu poco volitiva e molto difensiva: smisi di
frequentare chiesa e oratorio, e non partecipai più al rito della
messa.
Avevo solo tredici anni, di lì a poco
ne avrei compiuti quattordici, ed ero confuso, ma quando incontrai
per strada, un paio di mesi dopo il mio allontanamento, il sacerdote
che si occupava dell’oratorio (allora le vocazioni non erano in
crisi ed un parroco poteva anche avere diversi preti a coadiuvarlo),
alla sua domanda sul perché della mia scomparsa io riuscii a
rispondergli che non capivo perché avrei dovuto adorare un dio
d’amore infinito per la semplice paura delle conseguenze nel caso
non l’avessi fatto.
Non fu una risposta formulata proprio
in questi termini concisi e polemici ovviamente, ma il senso era
quello, e si fece strada tra il timore di qualche maestosa ed
immediata punizione divina e la penosa consapevolezza della mia
risibile forza contrattuale, per così dire, nei confronti di
un adulto, e pure ministro di culto. Non arretrai però.
Non originalissima fu la sua risposta.
Mi chiese chi m’avesse messo in testa quelle idee. Evidentemente
il diritto d’indottrinamento era l’unica ipotesi possibile,
che peraltro prevedeva un monopolio di fatto in favore di santa
madre chiesa.
Solo più tardi, e a conclusione di un
percorso piuttosto complesso, ho potuto distinguere tra l’impedimento
tecnico principale alla professione di fede, ovvero l’assenza di
una convinzione, ai miei occhi irrazionale, dell’esistenza di una
divinità di qualsiasi tipo, ed il riconoscimento della dimensione
manipolativa di un sistema di potere che si avvale di elementi
spirituali per l’implementazione di uno strumento temporale di
governo delle coscienze.
In questi giorni la tragica vicenda di DJ FABO, al secolo Fabiano Antoniani, riporta in primo piano tutti gli elementi
contraddittori di una fede che, strutturata su principi di amore
universale e incondizionato, si abbandona, per bocca dei suoi
“difensori” più intransigenti, alla più miserabile mancanza di
rispetto e di comprensione per chi soffre.
Alcuni presunti campioni della fede e
della virtù, personaggi pubblici e già ben conosciuti per le loro opinioni, si sono scatenati in giudizi morali violenti e privi
della benché minima traccia di umana comprensione. Ben lontani da
quell'amore puro e disinteressato che dovremmo nutrire per i nostri
simili, soprattutto quelli più sfortunati e in difficoltà, sono
riusciti solo a dimostrare la distanza siderale tra valori professati
e pratica quotidiana.
Io non sono un esperto di citazioni
tratte dalle sacre scritture, ma credo che da qualche parte il figlio
di quel dio cui io non riesco a credere, dica:
chi afferma di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre.
Forse per un miscredente come me la
cosa non è molto impegnativa, ma per chi ha il dono della fede
quella citazione dovrebbe essere piuttosto vincolante. Non mi sembra
che la cosa si verifichi e mi sento di dire che già a quattordici anni
avessi tutti gli elementi per pensarlo.
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