Ho
lavorato a lungo in un Istituto bancario che pur non esente da
critiche, per quello che ho potuto riscontrare nella prima parte
della mia vita lavorativa, ha mantenuto un'attività assolutamente
canonica, con comportamenti completamente assimilabili ad
un'operatività tradizionale, fatta di adeguate proporzioni tra
raccolta e impieghi.
Quella
banca inoltre, pur diffusa su tutto il territorio nazionale,
manteneva nel nome e nella rete di sportelli un legame preferenziale
con una regione in particolare, ove costituiva una delle più
rilevanti attività economiche, con tutto quello che ciò comportava
in termini sociali e dunque con implicazioni che andavano un po' oltre la mission di una banca.
Non
sempre e non tutto è filato senza scosse. La politica si è spesso
infilata nella gestione (nel CdA sedevano anche dirigenti regionali)
ed una voragine nel bilancio venne colmata, prima che io arrivassi,
ricorrendo al fondo pensione dei dipendenti, che collaborarono, un
po' per salvare il posto di lavoro, un po' perché il senso di
appartenenza era veramente forte.
Comunque,
in linea di massima, la banca operava, se fuori da influenze
politiche, con criteri prudenziali e nell'ottica di una remunerazione
adeguata, ma non estrema, per evitare scompensi.
Poi
è cominciata la stagione delle grandi fusioni bancarie e, appena
prima di venire conferiti ad uno di questi costituendi gruppi, mi
sono trovato a fruire di un corso (in realtà la presentazione di un
prodotto finanziario) durante il quale mi sentii dire che i
proventi della banca dovevano cominciare a provenire principalmente
dall'intermediazione di prodotti mobiliari.
La
cosa mi colpì e mi indusse a pensare che qualche equilibrio si era
rotto e cominciai a nutrire dubbi circa i punti di riferimento che mi ero andato costruendo. Se il cliente depositante viene visto principalmente
come potenziale sottoscrittore la funzione stessa della banca muta in
maniera drammatica, e non solo nel suo ruolo sociale.
Maggiori
ragioni di preoccupazione mi vennero quando, entrati a far parte del
grande gruppo, mi accorsi che venivano erogati mutui fondiari per importi talvolta superiori al valore peritato e a favore di soggetti dalle capacità reddituali ondivaghe, segnatamente liberi professionisti, alcuni dei quali si trovavano nella condizione estremamente provvisoria di un extracomunitario, ovviamente con permessi di
soggiorno la cui validità era una frazione del periodo di
ammortamento, e con redditi appena sufficienti a coprire la rata
mensile.
Se
solo cinque anni prima qualcuno si fosse azzardato a proporre
un'operazione così avventata sarebbe stato frustato nel salone di
cassa di fronte ai colleghi, poi appeso al portone d'ingresso e,
infine, cacciato con ignominia. Non sono riuscito a capacitarmi di un cambio così improvviso e radicale del paradigma fino a quando non ho realizzato che le banche non si tenevano più "in casa" il
rischio, preferendo cartolarizzarlo, ovvero cederlo a società finanziarie che poi
lo utilizzavano quale materia prima per l'emissione di derivati
variamente esoterici.
E'
evidente che se non devi più rispondere del tuo operato, e le
conseguenze della tua dabbenaggine non comportano più alcuna
conseguenza a tuo carico, ogni cautela e pratica virtuosa del credito
non ha più alcun bisogno di essere perseguita, ed allora cominci a
produrre una "tossicità" sistemica che si accumula con
quella prodotta da altri soggetti, fino a creare i presupposti per
devastanti implosioni.
Operando
poi nel ramo corporate ho potuto verificare che, a fronte
dell'arroganza vessatoria che le banche praticano nei confronti delle
PMI, vi è una certa tendenza, man mano che le dimensione del cliente
salgono, ad erogare somme rilevanti, magari in pool, per finanziare
operazioni il cui rientro è semplicemente non preventivabile. Come
non pensare che le ragioni retrostanti non siano di natura estranea a quelle del credito?
L'ingresso
in uno dei più grandi istituti bancari del paese mi ha infine messo
a contatto con l'espressione più ferale di tutte, secondo me, quella
che è alla base di tutte le storture.
Nella
nostra nuova “casa” ho sentito ripetere, come un mantra
ossessivo, le parole fatali: “remunerazione
dell'azionista".
E questa remunerazione, tra l'altro, tendeva a esprimersi per
percentuali a due cifre. Questo in un contesto dove il tasso di
remunerazione dei depositi non si avvicinava neanche al mezzo punto.
Un
bancario dovrebbe ben sapere che un rendimento elevato corrisponde ad
un investimento rischioso e che dunque, per ottenere il risultato
voluto, il tasso di "disinvoltura" e di proposizione di
finanza creativa tendeva ad essere elevato.
Tutto
bene, visto che il capitale di rischio va remunerato? Mah, non so.
Dato che quel capitale non era degli azionisti, ma dei depositanti e
che il frutto andava ai primi e il "magro" ai secondi.
Quando
operi avendo come orizzonte temporale la prossima "trimestrale"
tu non ti comporti più come un contadino, che lavora in un ciclo che
si ripete e lo sostenta fino a quando se ne prende cura, ma cominci a
ragionare come un lanzichenecco che scende dal valico e si appropria
di tutto quello che vede. Asporta
l'asportabile, consuma tutto il resto e, se non lo può consumare lo
rivende a quello cui l'ha rubato, o lo distrugge. Travolge, sequestra
e stupra, e poi va altrove per ricominciare tutto da capo, un altrove che però non esiste più.
Se devo remunerare l'azionista con tassi a due cifre o con i guadagni sulle quote azionarie in costante fermento mi ritrovo fatalmente a operare nel breve. Dunque non importa se sto costruendo il disastro prossimo venturo, se non soddisfo l'obiettivo io non sono più funzionale e vengo espulso.
Ora
si fa un gran parlare degli scompensi del mondo bancario, della
fragilità di certi istituti, di crediti inesigibili, incagliati, di
contenziosi decotti e di eccessiva disinvoltura strategica e
commerciale.
Improvvisamente
ci si accorge, per esempio, che la montagna di mutui edilizi erogati
a imprese che si sono arenate a seguito della crisi non sono più
garantiti da terreni e costruzioni, spesso incomplete, i cui
parametri di valore e commerciabilità si sono ridotti ad una
frazione di quelli originari.
Ma
non è colpa di un destino cinico e beffardo. La testa nel cappio i
favolosi manager super premiati e favolosamente stipendiati ce
l'hanno messa non a ragion veduta, ma sperando che dio gliela
mandasse buona, abbagliati , come erano, da incentivazioni faraoniche
abbastanza grosse da far dimenticare ogni prudenza.
Così
ora ci si ritrova coricati su di un letto di spine, però i glutei
sforacchiati non sono certo quelli dei wonder boy della
“remunerazione dell'azionista”, bensì quelli dei dipendenti
costantemente assoggettati a campagne di esodi incentivati, dei
correntisti/obbligazionisti chiamati a colmare i buchi, della
clientela che si è ritrovata stritolata dalla stretta creditizia,
privata della liquidità necessaria, da una parte, a finanziare
l'attività, e dall'altra a provvedere al rientro dei finanziamenti a
suo tempo erogati e poi frettolosamente revocati.
No,
questo disastro è tutto ciò che si vuole, tranne una calamità
inaspettata.
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