lunedì 7 marzo 2022

In genere la gente litiga perché non sa discutere. (GK Chesterton)

Non sono più un ragazzino, i prossimi saranno 68, quindi ho maturato prospettive che mi consentono di apprezzare linee evolutive (o involutive?) nel modo di rapportarsi, e devo dire che non sono molto soddisfatto delle osservazioni che posso trarre.

Un tempo amavo molto discutere. Trovavo fosse un'attività stimolante e formativa, un modo per avere contatto con gli altri, per imparare e comprendere meglio il mondo circostante ed i processi che formavano la mia vita e le mie esperienze.

Amavo discutere anche con chi aveva opinioni diametralmente opposte alle mie, purché aperto al confronto, perché lo si faceva sempre cercando di sostanziare le proprie tesi costruendo un castello logico da confrontare col proprio interlocutore.

Questo non vuol dire che non lo si facesse con animosità, se le circostanze lo richiedevano, ma non di rado la discussione propiziava il suo più bel regalo: la possibilità di chiarire meglio il proprio pensiero, focalizzato dalle necessità espositive, e la sottolineatura di aspetti prima non individuati, emersi grazie proprio al confronto, che talvolta poteva perfino portarti a rivedere le tue stesse convinzioni, anche quelle più profonde, o quantomeno conducevano ad un loro affinamento. Anche le discussioni politiche, in genere le più infervorate, venivano condotte con rigore e senza mai rinunciare a uno standard di coerenza decente, pure al netto di aspetti propagandistici non sempre del tutto inappuntabili, ed io mi ci gettavo con entusiasmo, dato che ero stato cresciuto con il gusto del confronto. Solo in due casi mi ritraevo dalle discussioni: quando i temi erano o religiosi o sportivi. Nel primo caso non ero interessato a confrontarmi con verità rivelate e non negoziabili, cristallizzate in epoche precedenti, molto prosaiche negli scopi ultimi, a dispetto della spiritualità rivendicata, e convenientemente indifferenti alla logica.

Nel secondo, grazie soprattutto alla preminenza del tifo calcistico, mi trovavo estremamente a disagio con la "disonestà intellettuale" indispensabile al sostenimento dell'animosità verbale, direi necessaria e strenuamente perseguita, che tutti pareva ritenessero naturale e inevitabile, essendo il risultato finale perseguito l'annichilimento e l'umiliazione dell'avversario. Ne diffidavo per motivi "estetici", per la mancanza di rigore e la speciosità imperanti nelle confutazioni, ma anche per l'assenza di rispetto nei confronti dell'interlocutore e per il dispiego di una serietà cipigliosa e una sguaiataggine aggressiva espresse con un'intensità del tutto eccessiva rispetto al motivo del contendere. Oggi, come allora, quando esprimo questa mia disistima per la cifra delle discussioni sportive mi viene ribattuto, anche da vecchi amici e con una certa sufficienza, che se non sono pervaso dalla "passione" non posso capire. Esatto, e sono molto felice di non essere attrezzato per capirlo. Ritenevo, e ritengo tuttora, che il tifo sia una manifestazione tipica del concetto sottostante alla formula del "panem et circenses", un modo di veicolare capziosamente un disagio diffuso verso uno sfogo improduttivo e lontano dai reali responsabili delle situazioni che quel disagio lo hanno originato. E' inoltre il veicolo attraverso il quale lo scarso, anzi inesistente, rigore espositivo diventa lo standard dei confronti tra le persone, e questo, in tutta evidenza, è ciò che è accaduto e che abbiamo sotto agli occhi da molto tempo a questa parte. Oggi discutere mi è il più delle volte penoso, e la doppietta COVID-Ucraina mi ha lasciato boccheggiante sul pavimento, stordito per l'assoluta preponderanza dello standard "calcistico" che ha preso piede in ogni confronto dialettico. Il disprezzo per l'interlocutore emerge chiaramente dagli insulti espressi senza ritegno. L'assertività regna incontrastata, sicuro indice del timore di venire destabilizzati da dubbi che terremoterebbero certezze non adeguatamente meditate, costringendo a faticose elaborazioni, allo sviluppo di una capacità di analisi negletta e repressa. Il pensiero unico l'ha avuta quasi definitivamente vinta e si assiste al definitivo trionfo di un conformismo tossico e distruttivo. L'unico concetto chiaro è che il chiodo che sporge è il primo a venire ribattuto, ragione per la quale si resta tutti ben dentro ad un sentire codificato, che peraltro non ti mette al riparo dagli attacchi di chi ha scelto una "squadra" differente, o dai trollatori compulsivi che azzannano alla gola a prescindere, per quietare i propri demoni. Discutere continua a piacermi, ma riesco a farlo sempre meno frequentemente. Il più delle volte si tratta di farsi coprire di insulti. Le conclusioni che devo trarne mi sono insopportabili. Come abbiamo potuto lasciare che si arrivasse a questo?

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