Una mia amica,
Lela Dall'acqua, condivide su Facebook questo interessante istogramma
e mai come in questo caso sono portato a pensare che un'immagine vale
più di cento parole.
Lei commenta,
asciuttamente e con britannico understatement: "doverosa una
piccola ulteriore riflessione".
Io ne farei
perlomeno due, e non tanto piccole.
Risulta
innanzitutto evidente che mentre la frazione repubblicana rimane
sempre più o meno della stessa consistenza, quella democratica
sembra mobilitarsi quando il candidato appare in grado di alimentare
una visione strategica e di largo respiro (come il primo Obama nel
2008), salvo poi allontanarsi progressivamente (secondo mandato nel
2012) quando l'eletto disattende malamente le aspettative, per poi
giungere al minimo quando a quel presidente si fa seguire un
candidato amorfo e per di più organico allo stesso establishment che
ha fatto strame dei progetti di vita e delle aspettative dei delusi.
In
questo senso mi sembra che la maggior responsabilità per la debacle
democratica non vada imputata alla pur "antipatica" Hillary
Clinton, ma piuttosto a Barak Obama, il detentore di un Nobel per la
Pace, sulla fiducia e decisamente precipitoso, timido
nel suo primo mandato e inconcludente, salvo purtroppo sul versante
della politica - guerreggiata - estera, nel secondo.
E anche lo stato maggiore del Partito Democratico, con la sua asfittica capacità progettuale e i miserabili, ed errati, conti della serva elettorali porta una rilevante quota di responsabilità nella sconfitta.
E anche lo stato maggiore del Partito Democratico, con la sua asfittica capacità progettuale e i miserabili, ed errati, conti della serva elettorali porta una rilevante quota di responsabilità nella sconfitta.
Tutti
si affannano a rivendicare a Trump una maggiore consonanza con il
sentiment dell'americano medio, ma alla luce di questo
diagramma non sembra essere quella la ragione del suo successo,
mentre lo è la disaffezione dem, dato che solo l'assenza di una
fetta impressionante di elettori progressisti ha consentito al tycoon
di prevalere rimanendo il suo partito esattamente dove è sempre
stato, perlomeno negli ultimi otto anni.
E
qui scatta la mia seconda considerazione, che ha a che fare con le
pecche della capacità rappresentativa effettiva dei sistemi bipolari
e maggioritari. Una percentuale assai importante, risolutiva come si
è visto, non ha riscontrato in nessuno dei due candidati elementi in
grado di rappresentarne istanze e aspettative, risultando in tutta
evidenza le due offerte virtualmente indistinguibili e sovrapponibili
in più di un elemento. Si può discutere sulla congruità di questa
sensazione, concordando o meno, ma sta di fatto che era presente e
che ha agito in modo determinante.
Quale
corollario a questa considerazione mi sembra che vada esaminata, e
messa severamente in discussione, anche la capacità effettiva del
sistema delle primarie di rappresentare l'elettorato e non, come
sembra invece evidente, gruppi d'interesse organizzati e la
sudditanza a questi degli apparati di partito.
Mi
sembra del tutto evidente, a questo punto e a dispetto di tutti i
semplificatori e fluidificatori, nostrani
e non, dei processi di definizione politica che gli impianti
maggioritari e bipolari risultano grossolani e inadeguati, atti più
a rappresentare interessi organizzati ed economici che le effettive
aspirazioni di un elettorato che dovrebbe essere rappresentato il più
fedelmente possibile.
L'individuazione
del 45° Presidente degli Stati Uniti d'America ha avuto un esito
clamoroso, ma mi sembra di poter dire che sia il frutto di un
processo impreciso, deludente e incapace di rappresentare
integralmente la realtà sottostante. I suoi possibili esiti,
precipitati poi nella proclamazione di un personaggio ampiamente
criticabile, sarebbero stati in ogni caso una soluzione altamente
opinabile, perché in fondo il processo non ha elaborato e distillato
il meglio dalla società che dovrebbe rappresentare, ma solo un
compromesso al ribasso, frutto più che altro di reciproche
interdizioni e risentimenti, non importa quanto giustificati, il
tutto subalterno alla definizione di rapporti di forza tra
giganteschi interessi economici che vedono nell'elettorato solo una
casella da spuntare e un elemento da manipolare.
La
cosa ci riguarda? Certo che si. In fondo siamo tutti membri senza
diritto di voto dell'impero statunitense e, da quando ho memoria, non
si muove foglia che Zio Sam non voglia. Ma ci riguarda anche per le
implicazioni di una pulsione arrembante all'instaurazione di una
democrazia decidente, che ai riti nordamericani si
ispira, e che vorrebbe anche qui semplificare e
fluidificare.
Il
concetto di democrazia decidente è un boccone avvelenato, e vanta
sostenitori assai imbarazzanti (Berlusconi e Craxi, per dire). E'
anche un concetto che ha a che fare molto con i rapporti di forza in
un dato momento, e pochissimo con la sostanza della democrazia. Le
dittature sono il tempio della modalità decidente, e sono anche
costose, inefficienti e dolorose. Un pensierino per il giorno 4
dicembre 2016.
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